Il “food-storytelling” dei cibi ultraprocessati

Cosa c’entra Braccio di Ferro con gli alimenti ultraprocessati?

di Giovanni Ballarini
  • 04 June 2025

Quando il bambino non vuole mangiare o rifiuta alcuni cibi, è la mamma o la nonna che intervengono e incominciano a narrare una storia alla quale lui sta attento. Durante il racconto vi è un cibo che vanta straordinari pregi o effetti, è il preferito dal re o da un eroe, il bimbo lo assaggia e pian piano ne diviene assuefatto, se non entusiasta. Grande è il potere delle fiabe e lo stesso è nelle società che per diverse ragioni hanno scarse tradizioni o si trovano di fronte a nuovi cibi scarsamente o per niente tramandati, come circa un secolo fa avviene per gli americani per gli spinaci in scatola, ai quali l’industria alimentare racconta la favola di Popeye, in Italia Braccio di Ferro.
Nell’America della Grande depressione che inizia con il crollo della Borsa di New York del 24 ottobre 1929, una grave crisi economica e finanziaria sconvolge l’alimentazione popolare, con un diffusa malnutrizione soprattutto dei bambini con anemia da carenza di ferro. Nel 1870 il chimico tedesco Erich von Wolf aveva pubblicato uno studio sui vegetali negli spinaci registrando un quantitativo di ferro di 32,7 – 39,1 milligrammi per cento grammi di foglia, una quantità ben superiore a quella della carne di manzo (16,8 milligrammi). Oggi sappiamo che gli spinaci contengono 2,9 milligrammi di ferro ogni cento grammi di foglie fresche crude. Non entriamo a discutere i motivi di questo errato dato (molto probabilmente il metodo di analisi usato) ma il fatto che si diffonde e persiste l’idea che gli spinaci sono ricchi di ferro, capaci di contrastare le anemie e dare forza. Di questa credenza divenuta popolare se ne avvale Max Fleischer (1883 – 1972) che in crisi economica, nel 1933, crea Popeye (Braccio di Ferro), dotato di forza sovrumana dopo aver mangiato un barattolo di spinaci, ritenuti ricchi di ferro più della carne. Braccio di Ferro continua per molti anni ad utilizzare questa risorsa per aumentare la sua forza, usato dalle autorità sanitarie per promuovere il consumo di spinaci e durante la Seconda guerra mondiale si dice che l'America ha forza a sufficienza per mettere fine alla guerra perché mangia spinaci. La popolarità di Braccio di Ferro contribuisce ad aumentare le vendite di spinaci, uno studio del 2010 conferma che molti bambini consumano verdure dopo aver visto i cartoni animati su Braccio di Ferro, favorendo anche la fortuna dei coltivatori di spinaci tanto che nella località texana di Crystal City gli erigono un monumento commemorativo!
Il successo di Braccio di Ferro nel diffondere l’uso degli spinaci non è per un freddo dato di una tabella, ma raccontando una storia di cui è protagonista, usando quello che oggi è definito storytelling, termine che deriva dall'inglese story (storia) e tell (raccontare) che insieme significano raccontare una storia. Una metodologia tramandata attraverso varie epoche e culture diventando un elemento centrale della comunicazione umana, usata come mezzo per inquadrare gli eventi della realtà e spiegarli secondo una logica di senso. Una metodologia efficace perché con lo storytelling le emozioni dell'uomo trovano il mezzo più efficiente di espressione e che è usata dall’industria alimentare soprattutto nella diffusione dei nuovi alimenti ultraprocessati.
Negli antichi mercati i venditori decantavano le qualità dei loro alimenti, ma è nell’odierna era digitale che il food-storytelling si afferma come un indispensabile strumento di marketing, una chiave per aprire le porte dell’empatia e del coinvolgimento dei consumatori soprattutto per i nuovi cibi. Raccontare storie non è un’arte solo antica, ma una pratica quanto mai attuale che permette di tessere un legame profondo con un pubblico che, quando si parla di cibo, ha bisogno di un sentimento con sfumature ricche e coinvolgenti, non necessariamente vere, come la quantità di ferro negli spinaci di Braccio di Ferro. Il food storytelling diventa così una strategia fondamentale, soprattutto in un paese come l’Italia dove il cibo non è semplicemente nutrimento, ma emozione, storia, racconto e coinvolgimento. Attraverso la narrazione di un cibo, un piatto, una tradizione culinaria o un ingrediente si evocano ricordi, si suscitano sensazioni e si creano connessioni con il consumatore.
Storie antiche, se non vere almeno ricostruite e verisimili, sono quelle narrate per gran parte per gli alimenti ritenuti tradizionali. Storie moderne completamente inventate sono quelle dei nuovissimi alimenti ultratrasformati, il segmento più redditizio del portafoglio delle aziende Big Food a causa dei loro ingredienti a basso costo, ma che non suscitano ricordi che devono essere creati e raccontati con i nuovi, odierni mezzi di comunicazione, facendo riferimento al loro aspetto e gusto, indipendentemente dalla loro reale composizione. Storie non vere, ma che sulla gran parte dei consumatori suscitano effetti molto maggiori di un freddo elenco di componenti, di alcuni dati chimici o di un semplice “semaforo”. In un mercato letteralmente saturo di cibo almeno nel mondo occidentale, l’industria che non vuole la cosiddetta etichetta pulita cercando alternative che non abbiano bisogno di essere etichettate, con un sempre più invadente food storytelling crea e dà spazio a storie coinvolgenti, se non emotive. Storie che possono indurre a consumi eccessivi se non pericolosi. Ma questo è un altro discorso.