Come presidente dell’Unione Italiana Vini, Lei si è confrontato nel recente Vinitaly con politici, produttori e intermediari portando avanti il lavoro di mediazione e diplomazia per trovare una via d’uscita sul tema dei dazi e della tassa che rischia di mettere in ginocchio il settore. Come sono andati i colloqui con i produttori e i distributori americani?
In tutti i soggetti della catena distributiva americana è diffuso soprattutto un senso di smarrimento. Si rendono infatti conto che la maggior parte del reddito generato da una bottiglia di vino europeo che giunge in territorio americano è in America stessa. In pratica, 1 euro in Italia genera 4,5 dollari in America. Ciò significa che i dazi porteranno un aggravio soprattutto al consumatore americano e inflazione sul territorio Usa.
Che cosa ci dobbiamo aspettare e come possiamo affrontarlo?
Ci dobbiamo aspettare il peggio. Sarà un grosso passaggio per il nostro mercato, se non un vero e proprio sconvolgimento, con una riduzione del giro di affari di oltre 350 milioni di euro, su un totale di vendite italiane del settore vinicolo in Usa di 8 miliardi. L’Europa ha risposto imponendo dazi del 50% sugli spiriti americani ma noi importiamo da loro soltanto per 1,2 miliardi di euro. Alla luce di tutto ciò, al momento e per un periodo limitato a 90 giorni, gli Usa hanno abbassato i dazi sui prodotti europei dal 20% al 10% … ma dopo? Dobbiamo pensare a come produrre qualità e con un prezzo competitivo.
Si stanno a cercando soluzioni azienda per azienda o si punta sulla trattativa Ue-Usa?
Le soluzioni da cercare sono a livello europeo, non italiano e tantomeno aziendale.
Poi succederà che alcune aziende si riusciranno a mettere d'accordo personalmente, ma questo non è il modo in cui uno stato organizzato può pensare di procedere.
Quali saranno le cantine italiane più colpite in questa fase? Le piccole o le grandi?
Le cantine colpite ai dazi americani saranno un po’ tutte, specialmente quelle che in questi anni hanno concentrato il loro impegni nel distribuire prodotti varietali e non creando un brand. Altre cantine che soffriranno saranno quelle che hanno delle denominazioni d'origine un po’ deboli che potranno essere sostituite da altre che si sono fatte conoscere maggiormente in questi anni.
Lei ha suggerimenti da dare ai produttori italiani?
Come dicevo prima, bisogna lavorare sulla competitività. Ad oggi nelle aziende ci sono molti enologi ma non economisti agrari, mentre la contabilità e l’attenzione ai costi di produzione è ciò che può fare la differenza in questo nuovo scenario. I consumatori sono attenti alle scelte e sanno riconoscere la qualità che ha prezzi contenuti, oltretutto l’offerta è enorme e ci sono tanti competitors.
Parliamo di vini dealcolati: quali sono le attese del mercato? Sono un'opportunità aggiuntiva per il vino italiano?
Il vino dealcolato è certamente un'opportunità in un mercato sempre più attento ai consumi di prodotti alcolici per scelte di salute, di religione o altro. Al momento non è prodotto in Italia e le poche quantità che circolano provengono dalla Spagna, dalla Francia e dalla Germania. Bisogna ancora studiare come utilizzare l’alcol di risulta, il settore è ancora all’inizio.
Ma è interessante anche per quella fascia di persone che ancora non si sono affacciate al vino o ai prodotti con l'alcol: sappiamo infatti sempre di più che le persone si avvicinano al mondo del vino quando hanno oltre 35 anni, ovvero quanto hanno una situazione familiare stabile. L'età media per aprire una bottiglia di vino è decisamente salita rispetto a pochi anni fa.
Ha assaggiato il vino dealcolato? Che cosa ne pensa?
Allora, devo dire che gli spumanti sono piacevoli mentre sui vini bianche fermi e, soprattutto, sui vini rossi c’è ancora da lavorare. Ma come ho detto è un settore ancora all’inizio e potrà senz’altro migliorare; quindi, non bisogna essere preclusi a nessuna opportunità. Oltretutto il vino dealcolato è tassativamente di produzione da vigneto e quindi è un vino a tutti gli effetti.