Il mito del "washoku": le ambivalenze della cultura gastronomica giapponese

di Giovanni Bulian
  • 07 February 2024

La cucina giapponese, chiamata washoku, con il suo ricco patrimonio culinario e la sua raffinata estetica, ha acquisito negli ultimi anni una notevole importanza a livello internazionale. Sebbene la scoperta occidentale del sushi e del ramen risalga agli anni Ottanta del Novecento, con la diffusione dei sushi bar e dei ristoranti giapponesi o della cucina da asporto nelle città occidentali, è soltanto nel 2013 che la cucina giapponese ha ottenuto un riconoscimento internazionale significativo. Infatti, è stata inserita nella lista del Patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO, confermando indiscutibilmente il suo status come fenomeno alimentare globale. Questa designazione ha sottolineato l’importanza culturale e storica del washoku, evidenziando la sua influenza nella società giapponese e la sua capacità di rappresentare l’identità nazionale. Il riconoscimento ha anche posto l’attenzione sulle politiche nazionali e internazionali volte a preservare e promuovere il washoku sia nel Giappone che all’estero. Queste politiche comprendono programmi educativi, sostegno finanziario per la formazione e la promozione del turismo gastronomico. Sono state anche istituite certificazioni per garantirne l’autenticità e la qualità. I mass media, attraverso articoli e servizi televisivi sul washoku, hanno lodato il washoku come “ciò che è corretto dal punto di vista gastronomico” e in linea con i paradigmi culinari nazionali. In altre parole, il washoku è stato spesso visto come un modo sicuro per proteggere il gusto contemporaneo da influenze straniere indesiderate e fornire una nuova direzione gastronomica. Ad esempio, studiosi, chef e funzionari governativi hanno collaborato per promuovere il washoku no hi (Giornata del washoku), incoraggiando studenti, insegnanti e famiglie a dedicare ogni anno il 24 novembre a preparare e servire cibo giapponese. Di conseguenza, il washoku ha gradualmente assunto il significato di un’autentica cucina in grado di collegare gusto e tradizioni, ricette e stagioni, salute e identità locali, seguendo le consuetudini consolidate che fanno parte del patrimonio gastronomico giapponese.
La crescente popolarità della cucina giapponese nel mondo può essere attribuita a diversi fattori. In primo luogo, l’attenzione crescente verso uno stile di vita sano e la ricerca di alimenti freschi e leggeri ha contribuito alla diffusione del washoku, noto per la sua enfasi sugli ingredienti di alta qualità e sulla presentazione estetica. In secondo luogo, la notorietà della cultura pop giapponese ha creato una sorta di ponte culturale con il resto del mondo, coinvolgendo un vasto pubblico internazionale. L’interesse per anime e manga ha spinto molti a esplorare la cultura giapponese, inclusa la cucina. Infine, la globalizzazione e l’apertura dei mercati hanno reso più accessibili gli ingredienti giapponesi, consentendo ai ristoranti di cucina giapponese di sorgere in tutto il mondo, ma, allo stesso tempo, hanno innescato dei meccanismi di protezione della cultura gastronomica autoctona. La valorizzazione del patrimonio gastronomico alimentare in opposizione ai processi di globalizzazione si è rivelata senza dubbio un’importante scelta politica, lasciando però aperti diversi interrogativi sui reali protagonisti della competizione politico-economica che si sta giocando sulla scena internazionale.
Se analizziamo poi il termine washoku, si può notare che, a differenza di molti altri termini usati dai media per riferirsi alla tradizione culinaria giapponese, esso sembra avere un significato più sfumato rispetto a termini come nihon ryōri. La differenza semantica tra i due termini sta nel fatto che washoku si riferisce specificamente a un pasto giapponese, mentre nihon ryōri si estende a un qualsiasi piatto giapponese. Nonostante ciò, sia washoku che nihon ryōri vengono generalmente tradotti come “cibo giapponese” o “cucina giapponese”. Tuttavia, un’analisi più approfondita della terminologia rivela che nihon ryōri principalmente si riferisce alla cucina esclusiva offerta dai ristoranti, mentre washoku si riferisce all’alimentazione quotidiana e alla cucina casalinga. Il concetto di washoku rappresenta una “grammatica dei sentimenti” strettamente legata all’ambiente domestico più intimo, in relazione alle pratiche alimentari quotidiane giapponesi.
Come ha evidenziato l’antropologo Theodore C. Bestor, wa di washoku suggerisce l’essenza primordiale della cultura giapponese, associata alle origini autonome della società e della cultura giapponese prima dell’influenza cinese. Questa idea, sebbene storica, ha un impatto significativo sulla percezione della storia culturale giapponese. Inoltre, il concetto di wa rappresenta l’“armonia”, un valore considerato importante nella contemporanea coscienza nazionale giapponese. Attualmente, wa è usato come prefisso per indicare la giapponesità di oggetti, attività e significati, spesso contrapponendola all’occidentalità, rappresentata dal prefisso . Questa dicotomia si riflette in vari ambiti culturali giapponesi, come ad esempio nella distinzione tra washoku e yōshoku (cucina occidentale, euro-americana), nonché in altri contesti come wagashi (dolci giapponesi per la cerimonia del tè), wagyū (carne di manzo giapponese), washi (carta di riso giapponese) o wafū (stile giapponese).
Vi sono anche altri aspetti da considerare. La rilevanza strategica della cucina giapponese è sottolineata anche dalla creazione di un immaginario connesso alla produzione alimentare autoctona, ampiamente diffusa dai mass media. Queste immagini includono risaie, villaggi rurali e luoghi di produzione alimentare artigianale. Al centro di questa strategia si trova la produzione di immagini culinarie che servono alle politiche di costruzione dell’identità, trasformando il washoku in un modello identitario della società giapponese contemporanea. Durante il periodo Meiji (1868 - 1912), il termine washoku fu adottato per distinguere la cucina giapponese dai piatti esotici stranieri importati. Questi nuovi piatti stranieri, chiamati yōshoku, incorporavano influenze occidentali e asiatiche, mescolandole con ingredienti giapponesi. Molti di questi piatti sono diventati oggi parte integrante della cucina giapponese standard. Attualmente, il menu di un ristorante giapponese sarebbe considerato incompleto senza piatti come il curry o il tenpura, un piatto a base di verdure impastellate separatamente e fritte. Gli elementi fondamentali di un pasto washoku includono una ciotola di riso al vapore, una ciotola di konomono (sottaceti) e una ciotola di ju una zuppa che può essere preparata con tofu o con verdure e può essere aromatizzata con miso (un insaporitore ottenuto dalla fermentazione di un legume e un cereale). La presentazione tradizionale del washoku si basa sullo ichiju sansai, che significa “una ciotola, tre piatti”: i tre piatti possono essere estremamente vari nella loro composizione, ma si integrano tra loro. Gli ingredienti utilizzati sono ricchi di storia e tradizione, e il washoku enfatizza la varietà degli ingredienti. Anche un singolo ingrediente come il tofu può essere preparato in molti modi diversi, offrendo infinite varianti all’interno di un unico piatto. L’espressione popolare umi no sachi yama no sachi (tesori del mare e della montagna) indica il ricco patrimonio gastronomico del washoku, che include il riso (l’ingrediente culturale fondamentale della cucina tradizionale giapponese), le verdure di montagna (funghi matsutake, radici e frutti selvatici) e il pesce (tonno, orata, salmone e sgombro). Alghe, pesce, germogli di bambù e castagne sono ingredienti fondamentali in molti piatti. In generale, l’uso dell’olio è limitato, a eccezione del tenpura, e di solito viene utilizzato olio di semi di sesamo o di colza.
Il riso, in particolare, traccia un confine simbolico che separa il Giappone dalla cultura gastronomica occidentale, ma anche asiatica, come la cucina cinese, coreana, e anche quella delle minoranze etniche giapponesi come gli Ainu. Secondo l’antropologa culturale Emiko Ohnuki-Tierney, le risaie hanno un ruolo determinante nell’identità del popolo giapponese, perché rappresentano sia “il riso come nostro cibo” che “le risaie come nostra terra”. Il forte significato identitario del riso è sostenuto anche dal contesto religioso, attraverso l’uso di simboli, valori e rituali e dai sistemi dottrinali istituzionalizzati, come la tradizione shintoista e buddhista. La cultura alimentare in Giappone ha subito importanti influenze culturali dal continente asiatico tramite il buddhismo, che fu ufficialmente introdotto nel paese nel 538 d.C. Questa tradizione di pensiero si diffuse inizialmente soprattutto tra l’aristocrazia e la classe dei samurai, spingendo quest’ultima a ridurre il consumo di carne, poiché l’uccisione di esseri viventi era considerata contraria al precetto buddhista dell’ahiṃsā (“non violenza” in sanscrito). Ad esempio, il consumo di carne bovina fu gradualmente ridotto fino a essere ufficialmente proibito dall’imperatore Tenmu nel 675. Su sua richiesta, furono compilati il Kojiki (Memorie degli avvenimenti antichi) e il Nihon Shoki (Annali del Giappone), che si occupavano principalmente degli aspetti religiosi della corte imperiale. In entrambi i testi si attribuì un significato politico e religioso al riso, conferendogli un ruolo culturalmente predominante.
Si può comprendere come il riso abbia svolto un ruolo significativo nella storia della cultura cerealicola giapponese contribuendo a formare nel tempo un sistema stratificato di valori politici, economici e culturali. L’influenza significativa del buddhismo, che proibiva il consumo della carne, ha facilitato l’istituzione di una dieta a base di riso come fondamento della piramide alimentare, in quanto il chicco bianco rappresentava in modo appropriato il senso di purezza dell’animo giapponese. Il riso è diventato quindi non solo un elemento di valore economico, ma anche un simbolo di un’ossessione identitaria. Negli anni Novanta del Novecento, gli agricoltori statunitensi tentarono di esportare riso nel mercato giapponese, ma l’opposizione dei coltivatori e della popolazione locale impedì l’importazione di riso straniero fino all’Uruguay Round of General Agreement on Tarifs and Trade (GATT) (1986-1994), che costrinse il Giappone ad aprire i propri porti. Il governo del Partito Liberale Democratico, pur pianificando l’importazione, si schierò con i consumatori a difesa del riso giapponese, sostenendo il ruolo essenziale delle risaie per il territorio in termini di controllo delle inondazioni, conservazione del suolo, purificazione dell’aria e dell’acqua, e la preservazione del paesaggio giapponese. Nonostante il riso importato dalla California fosse praticamente identico a quello giapponese, i sondaggi indicavano che la maggior parte della popolazione preferiva il riso giapponese, anche se i test di assaggio dimostrarono che molti cittadini non erano in grado di distinguere tra riso giapponese e straniero. Fu solo durante la grave carenza di riso del 1993 che il governo si trovò costretto a importare riso. Tuttavia, la reazione dei consumatori dimostrò che, anche in una situazione di emergenza, la popolazione non era disposta a rinunciare alla propria marca preferita finché potevano ottenere almeno una quantità limitata di quel prodotto. Inoltre, si era diffusa l’idea che consumare riso straniero fosse pericoloso per la salute dei giapponesi, a causa delle voci che circolavano riguardo all’uso eccessivo e indiscriminato di insetticidi da parte degli agricoltori stranieri, nonché al trattamento delle spedizioni con prodotti chimici aggressivi per preservare la merce. Questi fatti di cronaca evidenziano che per molti giapponesi il riso rappresenta qualcosa di più profondo che un semplice alimento. I sostenitori che consideravano l’importazione di riso come un attacco alle radici stesse della cultura giapponese, identificata come la “cultura del riso” (inasaku bunka), erano sostenuti dai mass media, dalle organizzazioni agricole e dal mondo accademico. Il riso ha assunto un ruolo centrale nell’universo simbolico del washoku, entrando a far parte di un articolato quadro politico ed economico di emergenze sociali, complesse strategie volte a creare una politica del patrimonio culturale e della “gastrodiplomazia”, conseguite attraverso gli sforzi ufficiali fatti dal governo per creare un branding agroalimentare con lo scopo di aumentare il commercio, il turismo e il soft power nazionale. Allo stesso tempo, il washoku è una forma di “nostalgia alimentare” sui generis, una tendenza culturale ampiamente consolidata che può contare non solo su prodotti di nicchia, ma anche su associazioni e gruppi con centinaia di migliaia di aderenti, in cerca di sapori genuini, autentici e tradizionali.
La valorizzazione del washoku come patrimonio culturale e l’attribuzione di un valore identitario ad esso sono diventate una via per recuperare e preservare un senso di appartenenza e continuità con le radici culturali giapponesi. La nostalgia che circonda il washoku riflette un desiderio di riconnessione con un passato idealizzato che viene percepito come autentico, un periodo in cui l’identità individuale era saldamente ancorata alla tradizione culinaria e alle pratiche alimentari locali.   Il valore identitario del washoku appartiene all’immaginario del furusato, il vecchio villaggio o luogo nativo. La parola furusato ha una forte connessione emotiva e rappresenta un senso di appartenenza e legame con le proprie radici. È spesso associata a tradizioni locali, usanze, cibo e persino dialetti. Di conseguenza, incarna una combinazione di identità, tradizione, comunità e senso di appartenenza, che dà origine a una narrazione nostalgica di un mondo stilizzato e idealizzato del passato. La forte connessione tra la cultura gastronomica e la nostalgia diventa una sorta di cura per l’ansia sociale e il panico morale che affligge in molti casi, come vedremo, la società giapponese contemporanea. Sebbene la nostalgia sia comunemente intesa come una risposta emotiva scatenata quando stimoli esterni o interni richiamano un momento o un evento ideale del passato che può essere stato parte della propria esperienza di vita, le emozioni nostalgiche che emergono da un passato idealizzato si concentrano su luoghi, odori, sapori o suoni immobili, scoperti mentre queste emozioni stesse vengono provate. 
Nella retorica nostalgica sulla tradizione gastronomica del washoku, umami (saporito), riferito a ciò che considerato come il “quinto gusto”, viene usato per definire e distinguere il washoku come un’esperienza culinaria autentica. L’umami conferisce una ricchezza e una profondità ai sapori dei piatti giapponesi, creando un’armonia gustativa caratteristica, ed è spesso associato a un senso di nostalgia e attaccamento al passato, che si riflettono nella promozione del washoku come patrimonio culturale. Molti piatti tradizionali come il dashi (brodo di zuppa) e il miso, sfruttano l’umami per creare sapori complessi e appaganti che richiamano un senso di calore e di tradizione. Nel 2013, due popolari programmi televisivi della NHK, Close-up Gendai e Asa-ichi, hanno dedicato interi episodi all’umami. Close-up Gendai ha definito, ad esempio, l’umami come “la casa natia del gusto dei giapponesi” (nihonjin no aji no furusato), “la chiave del cibo giapponese” (nihon shoku no kagi) e “l’anima del cibo giapponese” (nihon shoku no shin). In questi programmi è stato inoltre evidenziato l’interesse degli chef stranieri per l’umami e come gli chef giapponesi abbiano insegnato loro a sfruttarne le potenzialità. È stata data una spiegazione dettagliata dell’umami come quinto gusto universale, grazie alla scoperta di un recettore gustativo specifico. Inoltre, sono stati discussi i suoi numerosi benefici nelle cure mediche. È stato ipotizzato che la ragione della realizzazione di questi programmi sia stata proprio la promozione del washoku al fine di farlo riconoscere come parte del Patrimonio culturale immateriale dall’UNESCO. Durante gli incontri ufficiali del Ministero dell’Agricoltura e della Pesca per la registrazione del washoku presso l’UNESCO, la definizione di washoku è stata uno dei principali argomenti di discussione.
L’immaginario del furusato associato ad altri contesti culturali può suscitare una nostalgia priva di fondamento storico; tuttavia, possiede anche la capacità di rafforzare il conservatorismo gastronomico assumendo così il ruolo di sostenitore di una controriforma alimentare. Un rilevante esempio di conservatorismo gastronomico riguarda la città di Kyōto e la sua tradizione culinaria. Kyōto è considerata la capitale culturale del Giappone e spesso viene definita come la “città natale del cuore e della mente giapponese” (Nihon no kokoro no furusato). Questa identificazione con la tradizione autentica giapponese si applica anche alla cultura gastronomica di Kyōto (Kyō ryōri), che è spesso considerata la fonte di gran parte della cucina giapponese classica. Nell’immaginario dei media, Kyōto e la sua cucina rappresentano una fortezza culturale che sembra rimanere intatta di fronte ai processi di globalizzazione. Sebbene il Kyō ryōri sia considerato l’emblema del particolarismo culturale di Kyōto in contrasto con la globalizzazione, molti chef di Kyōto hanno cercato di plasmare attivamente la cultura culinaria locale e controllare l’industria alimentare a livello internazionale.
I media giapponesi, oltre a porre il problema della cucina nazionale nell’odierna globalizzazione, hanno anche suscitato allarmismo in ambito gastronomico. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel Giappone post-Fukushima, in cui il consumo di cibo e la nostalgia sono collegati all’ideologia dell’auto-aiuto neoliberale e all’attaccamento neoconservatore alla nazione e alla tradizione. Dopo il disastro della centrale nucleare di Fukushima dell’11 marzo 2011 (Fukushima Daiichi genshiryoku hatsudensho jiko), i media giapponesi si sono spesso concentrati sulla resilienza e hanno criticato le previsioni scientifiche di disastri nucleari, promuovendo i valori tradizionali, le usanze popolari e la saggezza delle generazioni precedenti (senjin no chie). I dibattiti mediatici si sono concentrati sulla preparazione di pasti di emergenza, promuovendo la cultura del washoku (washoku bunka) come una risorsa fondamentale durante le crisi. Ad esempio, il consumo tradizionale di alghe nella dieta conferirebbe secondo alcuni una resistenza “naturale” agli effetti delle radiazioni nucleari. Sakamoto Hiroko sostenitrice appassionata del ritorno alle tradizioni, ha pubblicato nel 2012 insieme alla figlia, esperta culinaria, un libro intitolato Daidokoro bosaijutsu (Tecniche di cucina pronte per i disastri), in cui incoraggiano le donne a stabilire legami solidi con famiglie contadine e comunità rurali, che possono essere una fonte di cibo durante le situazioni di emergenza, enfatizzando l’importanza della tradizione.
Senza dubbio il washoku ha assunto un ruolo centrale nell’ideologia di “salvezza gastronomica”. Tuttavia, l’incidente di Fukushima ne ha rivelato alcuni aspetti contrastanti. Da un lato, il washoku è stato promosso e diffuso come una cucina che si basa principalmente su riso, carne e frutti di mare, inclusi il sushi, presentandoli come esempi di qualità e sicurezza alimentare; allo stesso tempo, sembra che le politiche di promozione culturale del washoku abbiano avuto una motivazione strategica ambigua nel campo del marketing gastronomico. Nonostante il washoku sia stato presentato come una cucina che valorizza la protezione dei mari e dell’Oceano Pacifico, almeno per il mantenimento della qualità degli ingredienti, il governo giapponese ha invece costantemente annunciato piani che minacciavano di scaricare tonnellate di acque reflue radioattive stoccate nei reattori di Fukushima, ormai paralizzati da anni. Nel 2021, con l’appoggio dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) delle Nazioni Unite e l’approvazione del neoeletto presidente americano, e nonostante le proteste ambientaliste, il governo giapponese decise di procedere con il massiccio scarico nell’Oceano Pacifico, con un taglio dei costi finalmente a buon mercato.
Si sollevò allora una polemica sulla genuinità della cultura gastronomica del washoku, che era stato promosso dal governo giapponese nel 2013 per esportare prodotti alimentari dopo il crollo delle vendite a seguito del disastro nucleare di Fukushima. L’impatto negativo sulla reputazione dei prodotti alimentari fu piuttosto evidente nella regione di Tōhoku, lungo la costa orientale del Giappone, dove molti sono ancora riluttanti a consumare riso e frutti di mare provenienti da Fukushima. Numerosi stati, compresi gli Stati Uniti, hanno messo restrizioni all’importazione di prodotti alimentari contaminati. Se l’AIEA aveva già espresso il proprio sostegno, affermando che il piano di attuazione soddisfaceva gli standard di sicurezza internazionali e che il rilascio dell’acqua trattata non avrebbe rappresentato una minaccia per le persone e l’ambiente, persisteva tuttavia, una notevole diffidenza. Esperti e opinione pubblica dei Paesi vicini, in particolare la Cina, hanno sollevato dubbi sulla trasparenza del governo e della società Tepco che gestiva l’impianto, manifestando preoccupazione soprattutto per i potenziali effetti negativi sulle attività di pesca e sui mezzi di sussistenza dei pescatori.
In sintesi, il dibattito sulle pratiche alimentari e sulle dinamiche culturali emerse in seguito ai traumi emotivi causati dai “disastri del cuore e dell’anima” (kokoro no shinsai) nel Giappone post-Fukushima continua a sollevare questioni etiche, culturali e ambientali complesse. Come si è visto, il washoku rappresenta un fenomeno culturale complesso che coinvolge prospettive ideologiche, ambientali e geopolitiche, e allo stesso tempo contribuisce a creare elementi culturali e simboli riconoscibili nella vita di tutti i giorni che diventano parte integrante dell’identità nazionale. Un forte simbolo nazionale come il washoku può quindi essere utilizzato come risorsa culturale per esercitare un’influenza positiva sul piano internazionale, promuovere le esportazioni, incentivare il turismo e plasmare in modo favorevole l’opinione pubblica straniera. La promozione del washoku come “marchio culturale commestibile” da parte dell’UNESCO evidenzia però una criticità nel suo modo di riconoscere il patrimonio culturale tangibile, perché contribuisce a consolidare definizioni nazionaliste di cultura. Questo solleva interrogativi urgenti sul modo in cui l’UNESCO e altre organizzazioni internazionali affrontano e rappresentano la diversità culturale, e sottolinea la necessità di un approccio più sfumato e inclusivo nella protezione ambientale e promozione del patrimonio culturale mondiale.

 Foto: Poster promozionali per la Giornata del washoku promossa dal Nihon Kinenbi Kyōkai (Consiglio Giapponese del Cibo). Fonte: https://washoku japan.jp/info/info-20161028-2/