Come migliorare l’approccio al tema cibo/ambiente

di Giuseppe Bertoni
  • 07 February 2024

Nella Dichiarazione Universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948, così si legge (Articolo 25):
Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione…
In esso risulta implicito che obiettivo centrale è la salute (ma anche il benessere) cui, in primo luogo, contribuisce l’alimentazione; ora, per chi ha a cuore la salute dell’uomo, non v’è dubbio che la corretta nutrizione implichi cibo sufficiente, ma non solo. Infatti, nel Vertice mondiale sull’alimentazione della FAO (1996) si è affermato: “La sicurezza alimentare, a livello individuale, familiare, nazionale, regionale e globale, viene raggiunta quando tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti per soddisfare le loro esigenze dietetiche e preferenze alimentari per una vita attiva e sana.”. Quindi, cibo disponibile, acquisibile e utilizzabile e, per quest’ultima esigenza, non può mancare la disponibilità di acqua potabile (garanzia per la funzionalità del digerente = buona utilizzazione). 

Per essere più espliciti, è necessario precisare come sia possibile definire-conseguire:
- Cibo sufficiente in quantità e qualità (e ben utilizzato); è compito dei medici-dietisti definirlo per ciascun essere umano, ma i valori assoluti delle quantità necessarie dipendono da n° e aspettative di benessere delle popolazioni;
- Cibo disponibile per tutti – senza compromettere il pianeta – dipende dal sistema agro-alimentare, o meglio dai sistemi essendo molto diversi gli approcci, sia nei Paesi ad Alto Reddito (PAR) e sia in quelli a Basso Reddito (PBR);
- Cibo acquisibile da parte di tutti è possibile a due condizioni non facili a realizzarsi: i) che il sistema economico cresca “sano”, senza lasciare “indietro” nessuno; ii) che il sistema di produzione (qualsivoglia) sia tale da ridurre i costi di produzione e quindi consenta disponibilità adeguate, così riducendo le forme di speculazione;
- Cibo utilizzato che implica 3 condizioni: i) situazioni igienico-sanitarie accettabili per garantire la salute generale; ii) dieta fondamentalmente corretta (energia, proteine, micronutrienti e fibra) e nella giusta quantità; iii) acqua di bevanda, ma anche per cucinare e per le pratiche igieniche basilari, tale da non causare disturbi digestivi.

A questo punto, credo si possa concordare sui seguenti obiettivi “minimali” dei sistemi agro-alimentari:
1) È necessario disporre - con costanza - di tutti gli alimenti necessari per fornire diete equilibrate e tali da soddisfare le aspettative di tutte le popolazioni;
2) È necessario che – insieme ai vegetali – vengano prodotte adeguate quantità di alimenti animali (carni, latte, uova e pesce), per garantire una nutrizione corretta;
3) È necessario che ciò avvenga senza incidere in modo insopportabile sugli equilibri locali e generali dell’ambiente (pianeta).
In realtà sono gli obiettivi che si possono desumere dal recente paradigma coniato da FAO e OMS: ONE HEALTH a significare che qualsiasi intervento dell’uomo deve prevedere/consentire all’unisono la salute di uomo, animali e pianeta.

Se vogliamo ora parlare delle soluzioni - sia pure limitatamente al sistema agro-alimentare (o semplicemente agricolo), giacché vi è anche il coinvolgimento dei sistemi sanitario, socio-economico ecc. - le opinioni e quindi le soluzioni divergono “radicalmente”, anzitutto perché vi è chi ritiene:
- che la produzione di cibo attuale sia già sufficiente per 12 miliardi di persone;
- che la sua disponibilità non sia sufficiente per tutti solo per due ragioni; la prima che il 30% (e più) del cibo prodotto viene perduto/sprecato colpevolmente (ivi comprendendo l’inutile produzione di Alimenti di Origine Animale o AOA), mentre la seconda è che larghe fette della popolazione non hanno disponibilità economica per acquistarlo;
- che a quanto sopra consegua la seguente logica: se non serve più cibo – avendo eliminati gli sprechi e le perdite - e poiché più cibo significa maggior impatto sull’ambiente, sarebbe preferibile utilizzare sistemi meno produttivi, rispetto a quelli intensivi; dunque, il biologico-biodinamico nei PAR e quelli “atavico-indigeni” nei PBR (che, oltre tutto, sarebbero entrambi, e per sé, meno impattanti sul pianeta).

A questo punto, prima di addivenire alle nostre proposte, sembra corretto approfondire la veridicità dei 3 punti precedenti; lo facciamo ricorrendo soprattutto alle posizioni ufficiali FAO ed evitando quelle di parte.
Circa la produzione sovrabbondante, se così fosse, non si capirebbe perché il WRI (2019) affermi che al 2050 servirà il 30-50% in più di cibo rispetto al 2010, mentre ridurre perdite e sprechi (benché necessario) non possa sortire grandi effetti. È quanto sostiene anche la FAO: “La riduzione delle perdite e degli sprechi alimentari non è necessariamente il modo economicamente più vantaggioso per migliorare la sicurezza alimentare e la nutrizione. In questo senso, l’aumento della produttività agricola attraverso la ricerca e lo sviluppo si è rivelato più efficace in termini di costi rispetto alla riduzione delle perdite post-raccolta.” (FAO, 2019). E poi: “Si noti che le misure mirate direttamente a una migliore efficienza nell’uso delle risorse naturali o alla riduzione degli stress ambientali, sono spesso più efficaci rispetto alla riduzione di perdite e sprechi di cibo.” (FAO, 2019). D’altra parte, se fossero reali gli eccessi sopra indicati, non si capirebbe perché - sia pure a breve termine - non si formino ammassi rilevanti di cereali ecc.
Circa l’abbattimento di perdite e sprechi – verosimilmente più prossimi al 20% che non al 30% (e comunque sono perdite, causate soprattutto da mancata produzione rispetto all’atteso) - aggiungiamo che le vere perdite (quelle pre-commercializzazione) sono le più certe e calcolate nel 14% circa, ma le cause risiedono prevalentemente nel mancato uso o disponibilità dei mezzi tecnici per evitarle (quindi prevalgono laddove si usano i sistemi biologico-indigeni da alcuni auspicati). Fra queste vi sono poi le perdite per la produzione di AOA, che peraltro sono vere solo in parte, perché la FAO (Mottet et al., 2017) stima che l’86% degli alimenti per animali non sarebbe edule per l’uomo; inoltre, sempre la FAO, ha recentemente affermato che: “Gli alimenti originati da animali terrestri, nell’ambito di modelli alimentari salutari, possono fornire un contributo vitale agli sforzi volti a raggiungere gli obiettivi nutrizionali globali per il 2025, come  approvati dall’Assemblea mondiale della sanità e negli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG), che mirano a ridurre l’arresto della crescita tra i bambini sotto i cinque anni, il basso peso alla nascita, l'anemia nelle donne in età riproduttiva (15-49 anni), il sovrappeso tra i bambini sotto i cinque anni e l'obesità e le malattie non trasmissibili legate all’alimentazione (NCD) negli adulti.” (FAO, 2023). Ne consegue che gli AOA non si possono ritenere perdite, come fanno molti (Willet et al., 2019), ma piuttosto una necessità nutrizionale e un modo per valorizzare immense quantità di biomasse (sottoprodotti agricoli e industriali, erbe di praterie ecc.).
Circa l’incapacità economica di acquistare il cibo “salutare” da parte di molti, abbiamo già osservato che essa dipende soprattutto dal sistema economico generale (non da quello agro-alimentare), ma altresì è fortemente condizionata dal prezzo degli alimenti e, questo, dalla disponibilità di cibo e dai costi di produzione (entrambi legati ai livelli della produttività e dell’efficienza produttiva).
Dunque, i precedenti presupposti non sono veri in larga misura, per cui si deve cambiare radicalmente la “logica” di cui sopra: non si può puntare su biologico-biodinamico e sull’indigenicità, ma è necessario puntare sui sistemi intensivi (sia pure sostenibili come suggerito dalla FAO, 2011). Evidente che si tratta di una “rivoluzione” copernicana, rispetto ai luoghi comuni ampiamente diffusi, come confermato chiaramente dai più recenti documenti FAO: “La riduzione più significativa delle emissioni, sia assolute che relative, può essere ottenuta dando priorità ai miglioramenti della produttività, non solo per quella animale ma anche ottimizzando l’efficienza in ogni fase della catena di produzione... Questo documento stima che, se implementati collettivamente, questi miglioramenti potrebbero ridurre significativamente le emissioni del settore zootecnico, pur rispettando l'aspettativa di un ulteriore 20% del fabbisogno di proteine animali prevista entro il 2050.” (FAO, 2023a). La cosa è ulteriormente ribadita nel recentissimo documento FAO (2023b): “Una migliore salute degli animali, quindi bassi tassi di mortalità e animali più sani, porta ad accrescere la produttività, per tassi di crescita superiori degli animali, cui fanno seguito minori emissioni”. E ancora: “Gli interventi più promettenti in termini di riduzione dei gas serra includono il miglioramento della produttività degli animali mediante buone pratiche di alimentazione e nutrizione e di tipo sanitario per ottimizzare salute e benessere degli animali”. 

Se queste sono le opinioni della FAO, ecco allora le nostre proposte che peraltro non saranno di tipo tecnico – pur sapendo che non mancano e sono in continuo progresso - ma piuttosto di consapevolizzazione-orientamento che dovrebbe servire a rendere il più possibile edotti della realtà i cittadini e, ancor più, gli “influencer” e i decisori politici cui spettano le scelte (spesso impopolari). In particolare, è allora necessario vi sia la consapevolezza che:
- il sistema terra – in quanto fonte di cibo e “casa” dell’uomo - si trova su un “crinale” dal quale è facile scivolare pericolosamente da un lato o dall’altro, per cui servono scelte il più possibile equilibrate e condivise (sicuramente non ideologiche);
- il rischio è quello di privilegiare i “capricci” dell’uomo “consumista” a scapito di natura-pianeta, ma altrettanto di considerare primariamente la natura trascurando le esigenze dell’uomo (tutti gli esseri umani). Con ciò dimenticando l’approccio che appare essere più ragionevole: garantire la salute di uomo, animali e natura (pianeta), cioè l’ONE HEALTH;
- è necessaria una presa d’atto che: i) l’attuale disponibilità di cibo è “al limite” per quantità, ma deficitaria per qualità (proteine, micronutrienti ecc. dagli AOA); ii) che sprechi e perdite sono da combattere, ma ciò non può essere risolutivo; iii) che i metodi cari agli ambientalisti (biologico, biodinamico, permacoltura, agro-ecologia, indigenicità ecc.), corrono il rischio di non risolvere nulla e spesso di peggiorare la situazione da tutti i punti di vista: sicurezza alimentare e salvaguardia dell’ambiente;
- appare inevitabile credere nella scienza e nella tecnica – quindi nella innovazione che porta alla intensificazione sostenibile - purché siano messe al servizio del paradigma One Health nel modo più equilibrato possibile. Di qui l’esigenza di un ampio coinvolgimento di tutte le competenze necessarie: dal medico all’economista, dal naturalista all’ingegnere, dal sociologo all’avvocato e via di seguito, ma senza scordare il ruolo centrale di chi si occupa del sistema agro-alimentare (agronomo, veterinario, tecnologo ecc.), per finire con i comunicatori affinché provvedano ad una informazione realistica e corretta, quindi competente anche questa;
- pure evidente che – oltre al massimo coinvolgimento possibile di tutte le competenze necessarie – le scelte da parte dei decisori politici (e degli operatori), non vengano falsate in un senso o nell’altro dal timore di incappare nel paradigma tecnologico richiamato da Francesco (2015). Per far questo, ognuno deve sentire l’obbligo di farsi guidare anche dall’etica come suggerito da Joseph Rotblat (1999), Premio Nobel per la pace nel 1995: "Prometto di lavorare per un mondo migliore, in cui la scienza e la tecnologia siano utilizzate in modi socialmente responsabili. Non utilizzerò la mia istruzione per scopi volti a danneggiare gli esseri umani o l'ambiente. Nel corso della mia carriera, prenderò in considerazione le implicazioni etiche del mio lavoro prima di intraprendere azioni. Anche se le richieste che mi vengono poste possono essere grandi, firmo questa dichiarazione perché riconosco che la responsabilità individuale è il primo passo sulla via della pace";
- infine, che questo modo consapevole di approcciare la soluzione dei problemi, dovrebbe servire primariamente – anche se non esclusivamente – nei PAR per moderare la loro tendenza a sfruttare le risorse del creato, ma altresì per produrre il necessario in modo accessibile ai più e con il minore impatto possibile sull’ambiente. Inoltre, dovrebbe richiamare i PAR all’obbligo “morale” – oltre che interesse - a far si che i PBR possano ugualmente crescere per raggiungere la sicurezza alimentare senza compromettere quella ambientale (la qual cosa richiede certo tecnologia, ma anche attenzione ad una educazione ad ampio raggio, che includa il cambio di mentalità, seppure nel rispetto della loro identità culturale e delle loro tradizioni).