Il ruolo della protezione delle piante nella strategia One Health

di Giacomo Lorenzini
  • 13 December 2023

Nel settembre 2004 la Wildlife Conservation Society riunì un folto gruppo di esperti internazionali per discutere il livello di conoscenze e le stime per il futuro in merito alle malattie degli esseri umani, degli animali domestici e delle popolazioni naturali. Il simposio generò una serie di raccomandazioni (note sotto il nome di “Manhattan Principles”) che furono facilmente sintetizzate nella definizione di “One World, One Health”. Secondo una affermata visione olistica, si tratta di un modello sanitario ispirato alla razionale integrazione di saperi differenti. La One Health si basa, quindi, sul riconoscimento che la salute umana (ma anche il benessere), quella degli animali (domestici e selvatici) e quella dell’ecosistema siano interconnesse e interdipendenti indissolubilmente. È riconosciuta ufficialmente dal Ministero della Salute italiano, dalla Commissione Europea e da tutte le organizzazioni internazionali quale strategia rilevante in tutti i settori che beneficiano della collaborazione tra diverse discipline, anche di tipo economico e sociologico. Si tratta di un approccio ideale per raggiungere la salute globale, perché affronta i bisogni delle popolazioni più vulnerabili e si identifica perfettamente negli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.
È un dato di fatto che le tematiche in oggetto abbiano da subito costituito tema di interesse, prevalentemente, da parte del settore medico e di quello veterinario. Si ritiene che il quadro debba essere opportunamente integrato anche analizzando i fenomeni dal punto di vista delle condizioni dei comparti agricoli e forestali. Infatti, la salute del mondo vegetale è essenziale per assicurare il soddisfacimento delle esigenze delle altre componenti del sistema. L’Uomo ha bisogno delle piante per vivere, respirare, disporre di acqua pulita, mangiare, svagarsi. Praticamente quasi tutto il carbonio presente nei carboidrati, nei lipidi e nelle proteine che ingeriamo nella dieta deriva dalla fotosintesi. Ciò è vero anche nel caso di un’alimentazione basata sul consumo di carne, in quanto, a loro volta, molti animali terrestri (ma anche quelli prodotti in ittiocoltura) si nutrono a spese di matrici vegetali. È noto, altresì, che da sempre le piante sono soggette agli attacchi di agenti nocivi (artropodi, microorganismi, virus, ecc.), i quali possono compromettere in maniera significativa la disponibilità e la sicurezza di cibo per uomini e animali, attraverso riduzioni di quantità e qualità e, talvolta, addirittura portando a morte gli ospiti.
Un primo aspetto è legato al soddisfacimento dell’obiettivo 2 dell’Agenda 2030: porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione, promuovere un’agricoltura sostenibile. La “food security” (cioè la sicurezza alimentare declinata in termini di accesso al cibo) implica l’eliminazione della fame, sì da assicurare a tutte le persone – in particolare quelle in situazioni vulnerabili, tra cui i bambini – la disponibilità fisica, sociale ed economica di cibo sufficiente, sicuro e nutriente per soddisfare per tutto l’anno le loro esigenze dietetiche e le preferenze alimentari per una vita attiva e sana. Il ruolo della protezione delle piante è qui fondamentale: stime FAO individuano in frazioni anche dell’ordine del 40%, in molti casi, le perdite rispetto alle rese potenziali attribuibili all’azione degli organismi nocivi, parassiti e patogeni, che interagiscono con le piante in tutte le fasi, comprese quelle di post-raccolta. La stessa sopravvivenza della coltura può essere messa in discussione. L’Organizzazione delle Nazioni Unite celebra ogni anno il 12 maggio una giornata, l’International Day of Plant Health, proprio per attirare l’attenzione sul fatto che «tutelare la salute delle piante significa contribuire a sconfiggere la fame, ridurre la povertà, proteggere la biodiversità e l’ambiente e dare impulso allo sviluppo economico». Infatti, quantomeno nelle società tuttora ancorate alle produzioni agricole come fonte primaria di reddito, il fallimento di un cash crop (es. caffè, banano, cocco, cacao) comporta drammatiche ripercussioni in termini economici e sociali.
Esiste, poi, una ulteriore chiave di lettura della sicurezza alimentare, vale a dire la “food safety”, relativa alla preparazione e conservazione di cibo che non costituisca un pericolo per la contaminazione da parte di agenti di malattia o sostanze nocive. Anche in questo caso la protezione delle specie vegetali coltivate è coinvolta in maniera diretta, sia perché la presenza di micotossine nelle derrate può innescare importanti problemi di salute (alcune di esse sono notoriamente cancerogene), sia per il motivo che residui di sostanze ad azione antiparassitaria applicate in campo o in magazzino possono essere ritrovati nel prodotto finale e quindi ingerite. La materia è fortemente normata, a livello nazionale e unionale, e spesso è oggetto di aspri dibattiti politici. È di questi giorni il fatto che l’Assemblea plenaria del Parlamento europeo ha respinto la proposta della Commissione europea per una drastica riduzione dell’utilizzo di agrofarmaci. I formulati posti in commercio subiscono in via preliminare una severa e articolata procedura di valutazione a livello multidisciplinare, tale da far ritenere che i rischi per il consumatore siano trascurabili (se essi sono applicati secondo le buone pratiche), ma esistono tuttora aree di incertezza (es. il ruolo di diverse sostanze contemporaneamente presenti nel prodotto destinato al consumo). Le autorità sanitarie sono chiamate a regolari e complesse campagne di analisi di migliaia di alimenti intercettati a diversi livelli della filiera. La frazione di campioni ‘positivi’, vale a dire che contengono residui in concentrazione superiore ai limiti di legge è costantemente molto bassa (dell’ordine di 1-2%), ma è altresì vero che una aliquota rilevante presenta valori significativi, seppur al di sotto della soglia di interesse tossicologico. Nel mercato stentano a inserirsi formulati dotati di meccanismi d’azione rivoluzionari (es. basati sulla stimolazione delle difese naturali dell’ospite) e le procedure di registrazione sono ritenute troppo pressanti per lo sviluppo di principi naturali. Considerevoli sono le aspettative in termini di nuove tecnologie finalizzate a inserire fattori di resistenza in materiale geneticamente interessante.
Uno dei pilastri dell’approccio medico a One Health è il contrasto attivo alla resistenza agli antimicrobici, in particolare agli antibiotici. Si tratta di un fenomeno legato soprattutto all’utilizzo scorretto e irrazionale del farmaco. Il loro uso continuo aumenta la pressione selettiva favorendo l’emergere, la moltiplicazione e la diffusione di ceppi batterici resistenti, a cui di norma consegue la perdita di efficacia del medicinale. In Europa ogni giorno si assiste a un centinaio di decessi dovuti a infezioni sostenute da isolati divenuti ‘super-resistenti’ ai più comuni antibiotici. La resistenza può essere trasferita non solo alla progenie del ceppo, ma a volte anche a microrganismi completamente diversi. Ecco che qui entra di nuovo in gioco la Patologia vegetale, in quanto importanti malattie batteriche delle piante possono (o potrebbero) essere contrastate con successo proprio con l’applicazione di un antibiotico. In molti Paesi, tra i quali l’Italia, questo tipo di intervento è totalmente bandito da lungo tempo, in quanto è concreto il pericolo che un simile trattamento possa portare alla comparsa di microrganismi dotati di farmacoresistenza e tale carattere possa essere trasferito ad altri germi potenzialmente patogeni anche per l’Uomo. In casi di emergenza, però, Germania, Austria e Svizzera possono consentire l’uso degli antibiotici (in particolare la streptomicina) nei frutteti per proteggerli all’infezione di Erwinia amylovora (agente causale del “colpo di fuoco batterico”, in Italia gestito (non senza difficoltà) mediante decreto di lotta obbligatoria). Aumentare le rese delle colture e proteggere le piante dagli innumerevoli agenti ostili senza compromettere la salubrità del cibo e dell’ambiente è la sfida alla quale siamo chiamati. Nuove strategie, supportate dalle innovazioni tecnologiche (remote sensing, digital farming, AI, sistemi previsionali, ecc.) e dalla disponibilità di strumenti di difesa maggiormente performanti e meno impattanti sono necessarie e talvolta richiedono adattamenti importanti rispetto alle tradizionali pratiche.
Il mondo vegetale, poi, svolge un ruolo centrale nella produzione di servizi ecosistemici, alcuni dei quali strategici per assicurare salute e benessere all’umanità. Si viene a chiudere il cerchio virtuoso “uomo-animali-ecosistemi” alla base di One Health. Di particolare interesse, al riguardo, è il fenomeno irreversibile della progressiva urbanizzazione della nostra collettività (riguarda già tre europei su quattro), al quale si affianca un rilevante aumento dell’aspettativa di vita. In breve, avremo presto “sempre più anziani che vivono in città” e sarà imperativo garantire loro adeguate condizioni di salute e di benessere. Ma l’ambiente urbano è ricco di insidie per gli esseri umani: condizioni microclimatiche estreme (es. ondate di calore), inquinamento, rumore, presenza di scorie chimiche di ogni tipo. E, ancora una volta, sono le piante a offrire un contributo, in quanto mitigano gli estremi termici, abbattono i rumori, rimuovono contaminanti gassosi (a cominciare dal diossido di carbonio) e particellari dell’aria: in altre parole, garantiscono fondamentali servizi ecosistemici di regolazione (anche alla luce dei mutamenti climatici in atto), ai quali si aggiungono gli aspetti di tipo psicologico e culturale. La messa a dimora di (moltissime) piante – in particolare alberi – si presenta all’apparenza come una proposta vincente (la foresta non è soltanto ‘bella’, ma anche ‘utile’) e, infatti, sono innumerevoli le iniziative che a livello locale, ma anche internazionale, vengono proposte. Purtroppo, in molto casi si tratta di mera propaganda (qualcuno si esprime in termini di “green washing”), in quanto spesso i progetti non tengono conto della impraticabilità di molte soluzioni, a cominciare dalla mera reperibilità del materiale, al conflitto per la risorsa suolo con le piante a destinazione alimentare, per non parlare della valutazione delle prestazioni ecofisiologiche della vegetazione, che variano nel tempo. Un dato, però, è certo: è imperativo che gli alberi presenti (al momento) siano trattati in maniera corretta per continuare a offrire i loro benefici (si pensi alle maldestre potature in ambiente urbano) e preservati dal rischio incendio, dal dissesto idrogeologico, dalla deforestazione per lasciare spazio a cash crops, all’aggressione di organismi nocivi.
Se, come è giusto che sia, One Health prevede una accezione estensiva del concetto, tale da includere lo stato di salute in termini di completo benessere fisico, mentale e sociale – e non semplicemente l’assenza di malattie o infermità – occorre che anche la salute del mondo vegetale, sinora considerata una sorta di Cenerentola, trovi i propri spazi, in un’ottica fortemente multidisciplinare. Anche i progetti formativi di ogni ordine dovrebbero essere allineati con questo principio. 

(Testo basato su una lezione magistrale tenuta all’apertura del Master in Sviluppo sostenibile e cambiamento climatico dell’Università di Pisa)