Il PNACC (Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici) e l’agricoltura

Problemi complessi richiedono risposte complesse

di Gennaro Giliberti
  • 01 March 2023

È ormai indubbio il ruolo dell’agricoltura sulla capacità del pianeta di adattamento al climate change, ma è importante ribadire che essa, al di là di una ormai dirompente componente fake dell’informazione di massa, produce effetti nel complesso migliorativi, rispetto ad altre attività economiche.
Trova pertanto spazio, nel dibattito degli ultimi anni, il recente Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), redatto a cura del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica.
Stando al documento, l’agricoltura italiana, come quella di tutti i paesi dell’area mediterranea, è una delle più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici a livello europeo.
Ancora vivide nella memoria le immagini degli effetti sull’agricoltura della recente crisi idrica del 2022, che peraltro non ha accennato ad invertire la tendenza neppure nei primi mesi del 2023.
Nonostante l’adattamento al clima sia una caratteristica intrinseca del settore primario, la portata, l’incertezza e la velocità dei cambiamenti climatici in atto e attesi, rendono necessario un aumento della sua capacità adattiva, per ridurne gli impatti, ma anche per cogliere le opportunità offerte dalle mutate condizioni climatiche.
Sempre secondo il Piano, per quanto riguarda gli impatti in corso, attualmente per il settore agricolo non sono disponibili indicatori utili, a scala nazionale, a valutare gli impatti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura. A livello regionale, ad esempio, l’Emilia Romagna ha sviluppato un indicatore finalizzato a quantificare l’impatto dei cambiamenti climatici relativo all’aumento della siccità sui sistemi agricoli: l’indicatore di deficit traspirativo, calcolato come differenza tra traspirazione massima e traspirazione effettiva (SNPA, 2021). Esso è stato applicato per alcune colture agricole rappresentative dell’Emilia-Romagna come erba medica, mais, vite. Ebbene, negli ultimi 60 anni (1961-2020) si evidenzia un aumento statisticamente significativo del valore massimo annuale di tale indice, cumulato negli ultimi 60 anni: ciò indica un incremento della siccità agricola, a breve (30 giorni) e medio termine (90 giorni). L’incremento più elevato nel deficit cumulato massimo è osservato per il mais che per i 30 giorni presenta un trend di 8 mm/decennio, rispetto all’erba medica e alla vite (5 mm/decennio), e per i 90 giorni un trend di 20 mm/decennio, rispetto ai 18 mm/decennio per l’erba medica e la vite.
Impatti economici negativi rilevanti possono derivare dagli effetti dei cambiamenti climatici sulle rese e sulla produzione agricola (Ronchi, 2019). La letteratura (EEA, 2016; Dominguez & Fellman, 2018; MATTM, 2017; Boere et al., 2019; Hristov et al., 2020) evidenzia un’alta variabilità nelle proiezioni delle rese dovuta sia alla diversa caratterizzazione delle precipitazioni nei modelli climatici che alle risposte dei modelli agrologici alle forzanti climatiche. Tuttavia, esistono chiare indicazioni di un deterioramento delle condizioni agro-climatiche, in termini sia di aumento dello stress idrico che di riduzione della stagione di crescita in Europa centrale e del sud (Trnka Olesen et al., 2011; Hristov et al., 2020).
Nello specifico, gli agrosistemi saranno soggetti a variazioni in termini di durata del ciclo fenologico, produttività e potenziale spostamento degli areali di coltivazione tipici (verso nord e quote più elevate), con risposte differenti in intensità e segnale a seconda della specie e delle aree geografiche di riferimento (Moriondo et al. 2013a, Moriondo et al. 2013b). In generale, le colture risentiranno dell’incremento di temperatura riducendo la lunghezza del ciclo di crescita con conseguente minore accumulo di biomassa e quindi riduzione della resa (Lobell and Field 2007; Lobell et al. 2011). Le maggiori riduzioni di resa sono previste per le colture a ciclo primaverile-estivo (mais, girasole, soia), specialmente quelle non irrigate come il girasole. Tuttavia, colture classificate come C3, come ad esempio il frumento, il riso, l’orzo, potranno in parte compensare gli impatti negativi delle mutate condizioni climatiche, in quanto capaci di rispondere più efficientemente agli effetti diretti dell'aumento della concentrazione atmosferica di CO2 rispetto alle specie C4 (es. mais, sorgo, miglio, ecc.) (Qian et al. 2010). Per le colture arboree, come ad esempio vite e olivo, la variazione del regime delle precipitazioni e l'aumento della temperatura potranno determinare una riduzione qualitativa e quantitativa delle produzioni nelle aree del sud Italia e potenziali spostamenti degli areali di coltivazione verso regioni più settentrionali o altitudini maggiori.
Il danno, soprattutto alle produzioni pregiate, potrebbe inoltre portare ad una progressiva perdita di valore fondiario dei terreni agricoli. Le stime variano tra un deprezzamento dell’1–11%, fino al 4-16% a fine secolo (Bozzola et al. 2018). Van Passel et al. (2017) riportano stime ancora più pessimistiche di una perdita di valore del 10% dei valori fondiari per grado di aumento della temperatura (MIMS, 2022).
Il cambiamento climatico rappresenta un fattore di rischio anche per il bestiame allevato, con conseguenze che possono riguardare il benessere e la produttività (Notenbaert et al. 2017). Le temperature elevate, che già caratterizzano le estati italiane e che gli scenari climatici futuri prevedono in aumento, hanno un impatto negativo diretto sui processi fisiologici e comportamentali dell’animale, come la termoregolazione, l’ingestione di alimenti e la risposta immunitaria. A questi effetti diretti si aggiungono inoltre gli effetti indiretti che i cambiamenti climatici possono avere ad esempio sugli alimenti (contaminazione da micotossine, qualità e disponibilità alimenti) e sulle dinamiche ecologiche e biologiche dei patogeni e dei loro vettori (Kipling et al. 2016). Ulteriori impatti indiretti possono distinguersi tra impatti su allevamenti estensivi (prevalentemente associati alla disponibilità foraggera e alla qualità degli alimenti a causa di probabili riduzioni e modifiche delle specie presenti sulle superfici destinabili a pascolamento a seguito di fenomeni di desertificazione, salinizzazione delle falde o di avanzamento della macchia foresta nelle aree prative e pascolive) o intensivi (associati a fattori che possono mettere a rischio attività imprenditoriali di alto valore aggiunto, su cui le imprese agricole sono particolarmente esposte dal punto di vista finanziario; ad esempio, impatti di eventi come alluvioni su fabbricati e attrezzature).
Nonostante in alcune aree e per alcune colture si possano avere anche ripercussioni potenzialmente positive, il settore agricolo e, conseguentemente, quello agro-alimentare saranno soggetti ad un generale calo delle capacità produttive, accompagnato da una probabile diminuzione delle caratteristiche qualitative dei prodotti.
Dello stesso tenore il rapporto del McKinsey Global Institute, pubblicato nel 2020 dal significativo titolo “Un bacino mediterraneo senza clima mediterraneo?”, anch’esso concentratosi sul tema del cambiamento climatico e sulle ripercussioni sull’attività agricola dei paesi che circondano il “Mare nostrum”. Ricorda il rapporto, infatti, che la metà del valore della produzione agricola della regione mediterranea proviene da quattro colture: uva (14%), grano, pomodori e olive (9% ciascuno). Degli ultimi tre, i paesi mediterranei producono circa il 90% dell'offerta globale totale.
Se si guardasse alla sola filiera vitivinicola, la produzione delle regioni vinicole tradizionali dell’area del Mediterraneo potrebbe diminuire con i cambiamenti del clima. La stessa area, oggi normalmente vocata e adatta alla viticoltura, potrebbe contrarsi. È noto da sempre che la qualità dell'uva e del vino dipendono fortemente dalle condizioni meteorologiche: ricercatori stimano che dal 10 al 60 percento delle valutazioni dell'annata può essere spiegato dalle variazioni di temperatura durante la stagione di crescita. Temperature più elevate del solito incidono sulla qualità dell'uva, aumentando i livelli di zucchero e diminuendo l'acidità. Ma l'aumento delle temperature non è l'unica potenziale minaccia per l'uva: l'aumento dello stress idrico causa problemi anche ai coltivatori: mentre un lieve stress idrico migliora la qualità dell'uva per i vini rossi, un grave stress idrico riduce le rese ettariali.
Uno scenario quindi assai sfidante per l’agricoltura, chiamata - come del resto fa da più o meno diecimila anni - a giocare un ruolo fondamentale per la tenuta degli ecosistemi e per la sopravvivenza dell’uomo.
Resta aperto, tra gli altri, il tema della “percezione” e della “consapevolezza” da parte dell’opinione pubblica, circa la reale complessità (e portata) dell’evoluzione climatica dei prossimi anni. Purtroppo, spesso (è dimostrato) si è portati a minimizzare, se non addirittura negare, fenomeni (e problemi) molto complessi, che richiedono soluzioni assai complesse e approcci integrati e collettivi.
Ai dati scientifici (e il PNACC ha l’indubbio merito della sintesi), fanno spesso da contraltare i social, inclini sovente più alle fakenews ed al negazionismo, che all’approfondimento e studio.
È importante quindi usare - in modo necessariamente più efficace di quanto si sia fatto finora - le leve della comunicazione e dell’informazione: per stimolare nell’opinione pubblica atteggiamenti congrui di comprensione, consapevolezza, certo, ma anche di reazione, forse di maggior ausilio potrebbero essere le testimonianze vissute dei soggetti direttamente coinvolti sul campo. Tra tutte, di sicuro quelle degli apicoltori, negli ultimi anni alle prese con annate a dir poco fuori dell’ordinario, che gravi ripercussioni hanno avuto sulla vitalità (e la tenuta) del comparto stesso: pochi minuti di testimonianza di un apicoltore renderebbero in modo assai semplice e concreto la percezione di un fenomeno assai complesso.