Il Ministero della Sovranità Alimentare: le tante sfide oltre il nome

di Dario Casati
  • 09 November 2022

La formazione del nuovo Governo ha recato con sé anche una novità di un certo rilievo con nuove denominazioni per alcuni Ministeri. Alcune vengono ridotte all’osso per chiarirne funzioni e significato, altre ampliate e meglio specificate. Il fenomeno non è nuovo e risponde a logiche politiche ed organizzative. È consuetudine che con la nomina dei Sottosegretari si procedesse allo spacchettamento dei contenuti dei Ministeri, per aderire alla personalità degli incaricati e alla coerenza delle politiche del Governo. In questa occasione il numero delle modifiche è superiore al passato e se ne distingue per avere introdotto denominazioni che contengono un messaggio sulle linee di politica del Governo. È così, crediamo, con l’aggiunta del termine “Sovranità Alimentare” al già bisticciato nome del Ministero agricolo. Vogliamo chiamarlo così perché più volte, dai tempi di Cavour in poi, per esigenze di questo genere o più oggettive come rimediare al risultato del referendum che l’aveva improvvidamente abolito, è stato oggetto di modifiche. Ancora in questi giorni si attende il decreto legge definitivo di modifica della denominazione.
L’aggiunta ha destato curiosità, suscitato commenti ed interpretazioni ed è stata ripresa da un’analoga modifica compiuta in Francia quest’anno con l’appellativo di “souverainité alimentaire”. Nihil sub sole novi, dunque.
Nei mesi scorsi e in questa stessa sede ho criticato il sovranismo agricolo, un concetto che circolava da qualche tempo, secondo un certo “esprit du temps”. Un’assurda forma di politica agraria basata sul concetto di autarchia già fallito in campo agricolo sia sul piano tecnico sia su quello economico, accompagnato e sostenuto da uno stretto protezionismo. Una formula inadeguata ai tempi ed alle esigenze attuali e prevedibili, inadatta ad un Paese trasformatore di materie prime agricole, ma importatore netto di prodotti agricoli. Seconda potenza manifatturiera europea dopo la Germania e prima nell’alimentare di cui è esportatore netto. 
Ora, però, sembra che si tratti d’altro. E qui soccorre l’esempio francese oltre che l’interpretazione che ne hanno offerto il Presidente del Consiglio e lo stesso Ministro, Francesco Lollobrigida. Il suo obiettivo (cito da un’intervista) è “tutelare l’economia agricola dalle aggressioni del mercato del falso…rimettere al centro il rapporto con il settore per proteggere la filiera e il concetto di cultura rurale”, propositi ovviamente condivisibili. Dopo la lotta all’ italian sounding il Ministro si propone di “togliere il limite ai terreni incolti, abbiamo 1 milione di ettari coltivabili”, “aumentare la resa delle produzioni attraverso un piano di coltivazione che non può prescindere da contratti di filiera...”  e poi, dopo il richiamo alla lotta alle pratiche sleali “Investire sull’innovazione e mettere fine alla speculazione sulle materie prime come il grano”. In altre interviste aggiunge la critica al Nutriscore, gli investimenti nella ricerca, l’attenzione alla biodiversità, lo stimolo al coordinamento con le Istituzioni europee “per limitare l’esposizione alimentare del Continente nei confronti del resto del mondo”. Inoltre afferma “E’ necessaria una riforma della Pac che si liberi dall’ideologia intrinseca del Farm to Fork, perché la sensibilità ambientale è sentita anche in Italia e il nostro Paese può dire di avere delle agricolture da sempre più sostenibili”. Infine un Piano di potenziamento delle risorse e delle reti idriche.
Gli obiettivi del Ministro sono concreti e vanno nella direzione di un rafforzamento della nostra agricoltura sottraendosi alla genericità dei comunicati e dell’onda del pensiero corrente. Il problema del rallentamento della produttività agricola in Italia è una realtà dall’inizio degli anni ’90 del Novecento. La crisi alimentare scatenata dalla guerra russo/ucraina non ci ha toccato molto direttamente, le quantità importate dai due Paesi sono modeste, ma l’innalzamento dei prezzi su scala mondiale iniziato già nella seconda metà del 2021 è stato più che un campanello d’allarme. Farà bene il Ministro se ricorderà che la nostra agricoltura nel momento dell’emergenza Covid ha retto bene, ma ora, con l’inflazione da costi (energia, fertilizzanti, alimenti per il bestiame) e importata per completare l’offerta agricola nazionale e trasformare in alimenti che esportiamo (grano duro da pasta, olio extravergine d’oliva, olio di girasole, lattiero caseari e carni) le cose cambiano. È obbligatorio aumentare la produttività del sistema agricolo nazionale con il ricorso all’innovazione ed al trasferimento tecnologico alla nostra agricoltura. Insomma, è ora di smettere di baloccarsi con certo pseudo ambientalismo che insieme alla pseudo scientificità delle agricolture alternative riduce la produttività. Quell’innovazione che si può applicare alle più svariate necessità, con dovute attenzioni e prove scientifiche serie, deve poter entrare nella nostra agricoltura come già avviene in tutto il mondo. E a proposito di quest’ultimo non dimentichiamo la responsabilità che come Paese avanzato abbiamo nei confronti degli altri. Le nostre produzioni aiutano anche i Paesi alla fame a disporre di maggiori quantità di cibo che noi, potendocelo permettere, potremmo sottrarre al mercato mondiale per un malinteso senso di rispetto del pianeta. Per incrementare l’innovazione occorrono investimenti sulla ricerca di base e su quella applicata, altrimenti alla prossima emergenza il Paese collasserà. Fa bene il Ministro a citare provvedimenti strutturali per l’acqua dopo i danni di un anno di siccità. Ad essi andrebbero affiancati altri investimenti in strutture di stoccaggio strategico di prodotti chiave per l’alimentazione e nella logistica della produzione agroalimentare. Senza non si può pensare alla sicurezza alimentare di un Paese come l’Italia.