Suolo: come invertire la rotta verso il degrado?

“Per difendere i suoli serve una chiara volontà politica, basata su una consapevolezza diffusa che inizi dalle scuole e per aumentare la resilienza al cambiamento climatico c’è bisogno di una gestione specifica, di precisione e basata su una loro conoscenza approfondita”. Intervista al georgofilo Edoardo Costantini, presidente eletto della IUSS (International Unions of Soil Sciences)

di Giulia Bartalozzi
  • 25 May 2022

Dottor Costantini, il recente rapporto Onu “Global Land Outlook 2” sull’uso del suolo, lancia un chiaro allarme e sottolinea il ruolo, tutt’altro che positivo, del sistema della produzione alimentare sul degrado delle terre. Ad oggi, l’uomo avrebbe alterato il 70% del suolo su cui ha messo piede e ne avrebbe degradato fino al 40%, in tanti modi: la deforestazione, l’agricoltura intensiva, gli incendi, il consumo di suolo, l’inquinamento chimico del suolo, le guerre, la costruzione di infrastrutture. Siamo veramente a un punto di non ritorno?
Certamente se facciamo una valutazione globale e facciamo riferimento alla fertilità e allo stato di salute dei suoli coltivati in riferimento alle condizioni naturali, non antropizzate, la situazione è allarmante. Le attività dell’uomo hanno interessato circa il 40% della superficie terrestre e quasi il 92% delle praterie/steppe naturali è stato destinato all'uso umano, compresi i pascoli e i terreni coltivati. Attualmente si hanno 1.426 milioni di ha di terreno coltivato, 165 di colture permanenti e 3.275 di pascoli e pascoli. Solo per avere un’idea, si stima che con la messa a coltura delle praterie naturali si sia perso circa il 40% della loro dotazione di carbonio organico, elemento essenziale della fertilità del suolo.
Però vorrei ricordare che il processo di degradazione della fertilità naturale del suolo è complesso e va inquadrato in un contesto storico e geografico. Vi sono marcate differenze tra le aree del mondo da più tempo coltivate e quelle che solo più di recente sono state messe a coltura. Nelle terre di più antica coltivazione, in particolare, l’impatto dell’uomo sul suolo non è stato uniforme nel tempo e nello spazio, ma ha visto fasi di intensa degradazione alternate a fasi di recupero e anche di miglioramento della fertilità. La prima crisi ambientale si è avuta con l’avvento dell’era dei metalli, circa 5000 anni fa. Con l’aiuto dei metalli l’uomo ha compiuto estesi disboscamenti per la messa a coltura di suoli anche molto fragili. L’avvento dei metalli ha anche aumentato la diffusione degli incendi e delle guerre, con le conseguenti ampie devastazioni. Ne sono conseguiti intensi fenomeni di erosione idrica, ma anche eolica, aggravati in concomitanza di periodi o eventi climatici aridi. Intere civiltà sono scomparse, come l’impero accadico in Medio Oriente. Testimonianze di tali processi di erosione e deposizione di coltri eoliche sono diffuse e documentate anche in Italia. L’agricoltore però ha reagito. L’inizio della diffusione dei terrazzamenti in tutto il mondo si è avuta proprio in quel periodo storico, come risposta alle evidenti perdite di suolo e di fertilità dei campi coltivati in pendio.
Fasi alternate di degradazione e di recupero di fertilità del suolo si sono avute anche successivamente, in particolare in epoca classica, nel medioevo, e intorno al piccolo glaciale (1600-1800) nell’emisfero boreale. Il recupero di fertilità è stato ottenuto attraverso tutta una serie di pratiche agronomiche che, come è noto, anche studiosi dell’Accademia dei Georgofili hanno contribuito a diffondere, non solo in Italia.
La situazione è profondamente cambiata a partire dalla metà del secolo scorso, con la diffusione di una agricoltura sempre più impattante sul suolo, basata sull’uso di macchinari sempre più pesanti, sull’introduzione di sistemi colturali sempre più intensivi, basati su poche specie e varietà coltivate, spesso accompagnati dall’abuso di fertilizzanti di sintesi e di pesticidi e su un eccessivo ricorso all’irrigazione, non di rado con uso di acque salmastre. L’impatto di questo modello di sfruttamento intensivo del suolo è stato ed è particolarmente grave nei suoli di limitata fertilità naturale, con conseguenze ambientali, economiche e sociali, anche gravissime. La degradazione più grave porta alla desertificazione, che purtroppo si sta diffondendo particolarmente proprio nelle aree di più recente messa a coltura, a causa dell’uso sconsiderato (o disperato) dei suoli più fragili. Adesso ci troviamo quindi in un’altra fase cruciale, dove c’è bisogno di una reazione collettiva e di un cambiamento di modello di riferimento.

Il Parlamento europeo, nella sessione plenaria del 29 aprile 2021, ha approvato la mozione con la quale ha chiesto alla Commissione Europea di predisporre una direttiva specifica per la protezione del suolo e della sua biodiversità, che Lei ha poi definito un buon risultato. Come sta procedendo nel raggiungimento degli obiettivi adesso che è passato un anno?
L’Unione europea sta investendo molto per arrivare ad una direttiva sul suolo con valore cogente, che potrebbe essere approvata già il prossimo anno. Il processo è accompagnato da cospicui investimenti nel settore della ricerca e del monitoraggio, quali non si erano mai visti prima, e che stanno attirando l’interesse di numerosi attori, pubblici e privati. L’implementazione delle innovazioni nella gestione sostenibile del suolo dovrebbe essere inoltre facilitata dalla realizzazione di 100 cosiddetti Living labs (laboratori viventi, cluster di aziende che sperimentano le innovazioni) e Lighthouses (fattorie dimostrative). Si punta anche sulla alfabetizzazione del suolo (soil literacy) e sul coinvolgimento dei cittadini (citizen science). Vi è consapevolezza di quanto sia difficile cambiare l’atteggiamento attuale dominante di fronte ai temi ambientali e al suolo in particolare, spesso alternativamente scettico o ideologico, quasi sempre molto carente o privo di solide conoscenze scientifiche. Nel complesso mi pare che l’Unione europea si stia muovendo molto. Certamente non mancano criticità, ad esempio, relative al coordinamento tra le diverse politiche e, più in generale, di coinvolgimento della maggioranza di quelli che devono essere i protagonisti del cambiamento, gli agricoltori. Purtroppo, molto spesso l’innovazione raggiunge solo una minima parte degli agricoltori europei piccoli e medi.

Secondo Lei è sufficientemente alto il livello di attenzione della pubblica opinione? E' diventato chiaro a tutti che il suolo non è una risorsa rinnovabile? Si potrebbe fare di più e se sì che cosa suggerisce?
No assolutamente. Basti vedere da quanto tempo si parli in Italia di leggi per limitare il consumo di suolo e per difendere la qualità dei suoli, senza essere arrivati ancora a niente. Come dicevo, si passa da posizioni di scetticismo a ideologiche, ma sono anche frequenti gli amministratori che a parole si ergono a difensori dell’ambiente ma poi favoriscono la cementificazione per far tornare i bilanci comunali e ingraziarsi settori dell’elettorato. I dati che ISPRA fornisce tutti gli anni stanno lì a dimostrarlo. Ipocrisia, ignoranza, malafede. La speranza è che, dovendo seguire le indicazioni europee, si arrivi anche in Italia a leggi e regolamenti che tutelino non solo il suolo, ma anche le sue qualità e i servizi ecosistemici. Perché bisogna sempre ricordarsi che i suoli funzionali, non cementificati sono sempre meno, ma anche questi non sono tutti uguali e non funzionano alla stessa maniera. C’è però bisogno soprattutto di una chiara volontà politica, basata su una consapevolezza diffusa. Le istituzioni educative, dalla scuola all’università, dalle associazioni alle società scientifiche, dalle fondazioni alle accademie, dovrebbero giocare un ruolo molto più incisivo dell’attuale. Non vedo ancora nelle istituzioni dare al suolo quello spazio e quel peso che sarebbero necessari per supportare tale consapevolezza diffusa. Cominciamo da qui per favore.

E' realizzabile la cosiddetta "intensificazione sostenibile", ovvero incrementare le produzioni per soddisfare la crescente domanda di alimenti, ma riducendo gli impatti ambientali dei processi e aiutare anche la sostenibilità economica e sociale delle imprese? 
Ottenere di più da meno? Si può, utilizzando nuovi modelli produttivi e nuove conoscenze. Faccio un riferimento concreto. I migliori terroir, quelli dove si producono i migliori vini, sono caratterizzati da vigneti dove tutti gli anni si producono uve di ottima qualità, in quantità soddisfacenti, con un impiego minimale di input esterni per la lavorazione del suolo, per la concimazione, per la difesa antiparassitaria, per l’irrigazione. Vigneti protetti da una attenta sistemazione idraulico agraria, con una adeguata gestione della copertura erbacea, intramezzati da strutture ecologiche, ad esempio siepi ed alberi da frutto, inseriti armonicamente nel paesaggio e vegetazione circostante. Il nuovo modello di agricoltura sostenibile, anche per le colture erbacee, pone l’accento sulla lavorazione minima del suolo, sulla copertura permanente della superficie, sull’alternarsi nello spazio e nel tempo delle specie, sulla riduzione degli input. In questo modo è anche possibile in molti casi produrre in media pluriennale di più e a minor costo, ad esempio, aumentando la dotazione di carbonio organico, ma soprattutto si migliora decisamente la produzione di servizi ecosistemici, dalla regolazione dei flussi idrici e dei sedimenti alla riduzione delle emissioni di gas serra, dal sequestro di carbonio alla tutela della biodiversità, solo per accennare ad alcuni dei servizi del suolo principali. 

Oltre che di un sistema sbagliato di agricoltura, il suolo è anche vittima dei cambiamenti climatici: su questo aspetto ci sono possibilità di attenuare i danni in attesa che si raggiunga l'obiettivo della neutralità climatica secondo il Green Deal?
Per essere meno soggetti all’effetto dei cambiamenti climatici i suoli devono essere più resilienti. Cosa vuol dire, in concreto? Che i suoli devono essere in grado di far infiltrare piogge di sempre maggiore intensità, per cui devono avere una ottima struttura superficiale, e devono essere in grado di accumulare una buona quantità di acqua infiltrata, per poter supportare le maggiori necessità idriche conseguenti a periodi più lunghi di siccità.
Dobbiamo quindi stare più attenti alla profondità dei suoli, alla presenza di eventuali zone compatte o impenetrabili lungo il profilo, alla tendenza all’accumulo eccessivo di sali, e naturalmente dobbiamo stare molto attenti a evitare accumulo di inquinanti. Dobbiamo soprattutto monitorare tutto il profilo del suolo e non solo lo strato superficiale. Questo è molto importante.
Altrettanto importante è assicurare il mantenimento di una buona dotazione di sostanza organica umificata. In generale, la resilienza dei suoli (non organici) aumenta con la quantità e qualità della sostanza organica, che favorisca l’attività biologica funzionale all’uso e alla gestione specifica di quel suolo.
Per aumentare la resilienza dei nostri suoli al cambiamento climatico c’è bisogno di una loro gestione specifica, di precisione, basata su una loro conoscenza approfondita. Attualmente sono disponibili conoscenze e attrezzature che possono grandemente facilitare una gestione sostenibile e resiliente del suolo. Una indagine pedologica di grande dettaglio, fatta con il supporto di sensori prossimali elettromagnetici e radiometrici, ha ormai costi economici sostenibili, dai 350 ai 500 euro ad ettaro. Ci sono quindi le condizioni affinché politiche lungimiranti, assieme a agricoltori sensibili all’innovazione, possano consentire una gestione sostenibile, resiliente e di precisione di gran parte dei suoli italiani.