Come distinguere il riso “biologico” dal “convenzionale”?

di Giuseppe Sarasso
  • 07 January 2015
La trasmissione di  Report  andata in onda domenica 14 Dicembre 2014 su Rai 3 ha messo in luce alcune incongruenze del mercato del riso “biologico” in Italia. Secondo i dati S.I.N.A.B., nel 2013 la superficie a riso  certificata in Italia come “biologica” è stata di 8.405 ettari, dai quali sono state raccolte 57.000 tonnellate di risone, con una produzione di 6,78 t/ha, rispetto ad una media  nazionale che per lo stesso anno l’Ente Nazionale Risi ha certificato in 6,6 t/ha . Dati sbalorditivi per gli addetti ai lavori, e non solo.   
La certificazione del riso “biologico”, coltivato in aziende  in maggioranza  miste, che applicano il metodo convenzionale su parte dei terreni, si basa principalmente sulle analisi chimiche del prodotto lavorato. Da queste, è ben difficile riscontrare l’eventuale utilizzo di fitofarmaci, a meno di usi impropri. 
I prezzi del risone “biologico” sono attualmente molto più elevati del convenzionale, fino a raggiungere il triplo  per i tipi indica, le cui quotazioni sono attualmente al di sotto dei costi di produzione a causa di importazioni senza dazio da alcuni Paesi asiatici. Se si aggiunge che il costo medio dei fertilizzanti e fitofarmaci  ammonta a 675 €/ha , il vantaggio economico di coltivare con metodi “biologici” che ottengano produzioni superiori al convenzionale  è straordinariamente importante. L’attività agricola per definizione è svolta alla luce del sole, alla vista dei confinanti e di tutti quelli che percorrono le campagne. Eventuali tecnologie idonee ad ottenere produzioni così rilevanti e ben retribuite, senza utilizzare fertilizzanti di sintesi e fitofarmaci, dovrebbero essersi diffuse  rapidamente a tutta la risicoltura, come è successo per molte altre innovazioni vantaggiose, ad esempio  le livellatrici laser ed i tracciafile satellitari. E’ logico inoltre chiedersi per quale motivo la certificazione biologica, eseguita da soggetti privati, venga richiesta solo per il 3,8% della superficie totale,  e lo specifico contributo UE, soggetto a controllo pubblico, per meno di 1/3 di quella certificata. Il 96,2% dei risicoltori si è dimostrato invece perplesso ad adottare tecniche colturali  così miracolose. Saranno tutti retrogradi? A questi hanno dato voce le associazioni delle province risicole dei giovani agricoltori di Confagricoltura, le quali  mediante un comunicato congiunto hanno stigmatizzato l’inefficienza dei controlli, e richiesto  che la certificazione “biologica” venga rilasciata solo alle aziende che ne applicano il disciplinare su tutta la superficie, assicurando un rigoroso rispetto delle regole. 
Le conclusioni  della citata inchiesta giornalistica, tratte dalle dichiarazioni  rilasciate dall’unico produttore di riso biologico  intervistato,  inducono a ritenere che  sia economicamente vantaggioso coltivare riso “biologico”, praticando avvicendamenti biennali riso - maggese con sovescio, ed accontentandosi di produzioni inferiori a 3 t/ha, ottenute ad anni alterni.  La Regione Piemonte, accogliendo prontamente questa tesi, con il DGR 41-526 del 4 novembre 2014, ha revocato una precedente delibera che derogava l’obbligo di avvicendamenti colturali per il riso bio. Dal 2015, definito come anno di partenza, è ammessa una monosuccessione a riso per tre anni, seguita da due anni di avvicendamento, uno dei quali destinato a leguminosa o coltura da sovescio.  
Tutto sistemato dunque?
La risicoltura è stata   praticata senza fertilizzanti chimici fino al 1847, data dei primi esperimenti condotti  da Camillo Benso conte di Cavour, nella tenuta di Leri. Nel 1926, grazie all’affermazione dei fertilizzanti di sintesi, le produzioni medie unitarie di risone erano raddoppiate rispetto al 1860 ( da 2,2 a 4,5 t/ha). Solo a partire dagli anni ’50 del secolo scorso sono stati disponibili gli erbicidi selettivi. Prima di allora,  nonostante l’applicazione di  rotazioni colturali, (normalmente comprendevano due-tre anni di riso, una sarchiata, una coltura autunno-vernina ed una foraggera) era indispensabile praticare la monda manuale, che richiedeva oltre 270 ore di lavoro ad ettaro. Questo accadeva prima dell’introduzione accidentale in Italia (1968) di Heteranthera sp, una infestante  che, per la grande capacità di disseminazione, il portamento e la capacità di riprodursi anche per rizoma, rende impossibile la monda manuale.
La storia è ricca di sperimentazioni di lotta meccanica alle infestanti della risaia: i migliori, più recenti, risultati riportano percentuali di controllo pari al 60%, che non sono tecnicamente ed economicamente accettabili. Al momento una risicoltura senza erbicidi sarebbe sostenibile nel tempo  solo se la lotta meccanica, in aggiunta alla rotazione colturale, conseguisse il controllo del 98% delle infestanti. Permangono quindi gli interrogativi ed i forti dubbi su quali metodi vengano utilizzati nel riso “biologico”, per difenderlo dalle infestanti, attività fondamentale per ottenere abbondanti produzioni che si protraggano nel tempo.
L’idea di poter “nutrire il mondo” senza l’utilizzo di fitofarmaci e fertilizzanti di sintesi, ripetuta all’infinito, si è trasformata in un assioma che, pur indimostrabile, è alla base di una ideologia in grado, grazie alla forte pressione mediatica, di costruire una ricca domanda. A questa, il mercato riesce a fornire una risposta altrettanto ideologica.



How can “organic” rice be told from the “conventional” kind?

History is filled with experiments in the mechanical fight against weeds in rice-fields: the most recent and best results report control rates of 60%, which are not technically and economically acceptable.  Nowadays, growing rice without weed killers is sustainable over time only if 98% of the weeds can be controlled mechanically and through crop rotation. Questions and strong doubts therefore remain on which methods are used for “organic” rice in order to protect it against weeds, an activity fundamental to achieving abundant production over time.