Soltanto con il “genome editing” si potrà ridurre in futuro l’impatto ambientale della viticoltura

Intervista a Cesare Intrieri: "La strada degli ibridi può essere una soluzione a breve-medio termine".

di Giulia Bartalozzi
  • 06 April 2022

Lo scorso dicembre il Parlamento e il Consiglio Ue hanno modificato le norme relative ai prodotti vitivinicoli, aprendo all'utilizzo dei vitigni ibridi per la produzione di vini DOC e DOCG. Riprendiamo l'argomento con il Prof. Cesare Intrieri, accademico emerito, il quale ha pubblicato una nota sull'argomento lo scorso febbraio su "Georgofili INFO": La Ue apre all’utilizzo delle denominazioni di origine anche per i vitigni da incrocio tra Vitis vinifera ed altre specie del genere Vitis. Quali conseguenze per la viticoltura italiana? 

Professore Intrieri, perché l'Unione Europea ha modificato questo Regolamento e quali saranno le conseguenze nella viticoltura italiana? Lei prevede che, cito, "presso i Consorzi di tutela delle Doc le discussioni su come applicare il Regolamento comunitario saranno lunghe e difficili" ...
La modifica del Regolamento UE è in linea con il principio della sostenibilità voluto dalla Pac.  La nuova normativa viene incontro alle istanze delle nazioni che da sempre coltivano la vite in condizioni ambientali di maggior pressione delle malattie fungine (Austria, Germania, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia) e accoglie le richieste dei paesi che con il cambiamento climatico si sono affacciati più recentemente alla viticoltura (Lussemburgo, Belgio, Olanda, Bulgaria, Polonia, Danimarca, Svezia, Norvegia). Il nuovo Regolamento ha lo scopo di consentire un più ampio utilizzo delle varietà di viti incrociate con la Vitis vinifera, che hanno una maggiore resistenza alle malattie e richiedono meno trattamenti annuali per la difesa sanitaria.
Anche per l’Italia l’apertura della UE all’impiego degli ibridi nei vini Dop, oltre che in quelli da avola e Igt, rappresenta un fatto positivo, ma gli effetti della norma comunitaria sulla riduzione dell’uso dei fitofarmaci nelle aree Doc e Docg si manifesteranno in tempi sicuramente lunghi per vari motivi, e innanzi tutto perché il Regolamento dovrà essere recepito dalla nostra legislazione, abrogando le leggi che attualmente vietano l’uso degli ibridi nei vini Dop.
L’abrogazione di tali leggi non è obbligatoria, e quindi sarà fonte di lunghe discussioni e di forti pressioni politiche contrapposte, poiché l’Italia potrebbe legittimamente mantenere il suo atteggiamento “restrittivo” rispetto ad una strategia europea di tipo “estensivo” sui vincoli d’uso degli ibridi. Ogni Regione dovrebbe comunque anche aver già autorizzato o dovrà autorizzare alla coltura le varietà ibride iscritte al Registro nazionale, un passaggio altrettanto lungo ma giuridicamente necessario.
Ammettendo che nel giro di uno o due anni l’impiego degli ibridi nelle Dop sia accolto dalla nostra legislazione, la palla passerà nelle mani dei Consorzi di tutela, alcuni dei quali, soprattutto quelli con denominazioni legate al nome del vitigno, potrebbero avere non poche difficoltà a rinunciare alla “rigidità” delle loro piattaforme ampelografiche. I Consorzi favorevoli all’introduzione degli ibridi dovranno poi discutere sulla scelta delle varietà resistenti, un problema certamente non facile da risolvere in tempi brevi: gli ibridi da utilizzare nelle Dop dovrebbero infatti aver dimostrato di avere caratteristiche agronomiche, chimiche e organolettiche riconducibili in modo certo e oggettivo al vitigno di base del singolo disciplinare. Un ulteriore argomento di discussione all’interno dei Consorzi verterà sulla percentuale di inserimento delle varietà ibride nei disciplinari, una quantità che dovrà comunque essere limitata per non modificare la tipicità delle produzioni enologiche.
In pratica, è quindi ipotizzabile che passeranno diversi anni prima che una quota importante della superficie italiana a Dop possa accogliere nei propri disciplinari le varietà resistenti, ma se anche la loro diffusione non sarà rapida e generalizzata, questo non toglierà valore alla loro funzione primaria, poiché è universalmente condivisa l’importanza degli ibridi per rendere più ecologica la coltura della vite, specialmente in zone fortemente urbanizzate ad elevata densità di popolazione. 

Qual è attualmente l'impatto ambientale dei fitofarmaci usati in viticoltura e di quanto potrebbe ridursi con l'impiego di varietà più resistenti a oidio e peronospora?
È difficile stabilire con certezza quale sia l’impatto ambientale dei presidi sanitari usati in viticoltura, ma secondo i dati del CREA la coltivazione della vite europea (Vitis vinifera L.) utilizza annualmente, in Italia, oltre 30 milioni di chilogrammi di fitofarmaci, la maggior parte dei quali è costituita dagli anticrittogamici, che in alcune zone vengono impiegati per 12-15 trattamenti stagionali contro l’oidio e la peronospora.
Ammettendo che nel giro di pochi anni quasi tutte le aree viticole italiane, Dop e non Dop, abbiano piantato un 15% di varietà ibride nei loro vigneti, questo significherebbe che sulle superfici coltivate con tali varietà i trattamenti antifungini potrebbero essere dimezzati. Tuttavia, considerando che la superficie nazionale investita ad uva da vino è di circa 670.000 ettari, il risparmio di anticrittogamici nel complesso della viticoltura italiana potrebbe al massimo raggiungere il l0%, un risultato importante, ma non certo risolutivo nei confronti dell’impatto ambientale di cui la viticoltura è ritenuta responsabile.

Quanto tempo ritiene che sarà necessario a fare valutazioni sperimentali sulla qualità del vino ottenuto con gli ibridi? Ci sono sperimentazioni già in corso in Italia o in Europa, e su quali vitigni? I Consorzi di tutela possono accedere ai risultati di tali sperimentazioni?
La valutazione di una nuova varietà di vite da vino “ibrida”, cioè ottenuta per incrocio tra la Vitis vinifera ed altre specie o ibridi complessi, richiede tempi necessariamente lunghi in fase di selezione e, successivamente, anche per la fase di iscrizione al Registro nazionale italiano. Per l’iscrizione al Registro i proponenti, cioè gli “aventi causa”, sono infatti tenuti a presentare al Mipaaf una documentazione, riferita ad almeno tre anni di produzione (5 anni dall’impianto), riguardante il comportamento della varietà sotto il profilo agronomico (vigoria, produttività, ecc.) ed enologico (caratteristiche biochimiche e organolettiche del vino). I dati dovrebbero essere comparati con quelli di un noto vitigno appartenente per il 100% alla Vitis vinifera (bianco o nero a seconda dei casi), coltivato nelle medesime condizioni. Le analisi enologiche dovrebbero includere l’espressione del carattere “foxy” e, per quelli a bacca rossa, anche la determinazione della malvidina diglucoside, la cui presenza accerta che le nuove costituzioni non appartengono per il 100% alla Vitis vinifera.
Dopo l’iscrizione al Registro nazionale, la possibilità di impiantare una nuova varietà può richiedere tempi altrettanto lunghi, poiché la messa a coltura è subordinata alle autorizzazioni degli Assessorati all’Agricoltura delle varie Regioni, a cui gli aventi causa devono presentare una ulteriore documentazione triennale, analogamente incentrata sul comportamento agronomico e sulle caratteristiche del vino ottenuto dalla varietà nello specifico ambiente.
Tutte le valutazioni prodotte dagli aventi causa, sia per l’iscrizione al Registro nazionale che per le autorizzazioni alla coltura di un nuovo vitigno, dovrebbero essere disponibili e consultabili presso il Mipaaf e presso gli Assessorati Agricoltura di competenza. I Consorzi di Tutela possono quindi avvalersi di tali documenti per una scelta preliminare delle varietà resistenti da inserire nelle Dop.
Per alcuni ibridi i Consorzi potrebbero utilizzare anche informazioni non provenienti dagli aventi causa, qualora tali ibridi siano stati oggetto di ricerche da parte di Istituzioni scientifiche indipendenti, non coinvolte nel processo di selezione. Dati di questo tipo, pubblicati su riviste internazionali, hanno certamente un maggior valore e possono essere consultati utilizzando motori di ricerca come ad es. “Google Scholar”, che è una piattaforma direttamente collegata alle fonti di informazione primarie (Università, database accademici, ecc.).
Tutto ciò che riguarda le caratteristiche agronomiche ed enologiche degli ibridi è di fondamentale importanza per i Consorzi di tutela, ma è chiaro che le indagini richiedono tempo e possono anche complicare le scelte, che peraltro dovranno essere fatte in maniera responsabile per mantenere inalterato il valore e la personalità delle singole Dop. Gli stessi Consorzi potranno comunque attivare sperimentazioni proprie all’interno delle aree che sottendono le denominazioni.

Alla luce di oggettive difficoltà nell'impiego degli ibridi, lei suggerisce un'altra valida alternativa che possa limitare i trattamenti chimici di difesa in viticoltura: le TEA, ovvero le tecniche di evoluzione assistita o di "genome editing". La ricerca sull'applicazione di queste tecnologie alla vite è molto avanzata ma ci sono limitazioni al loro utilizzo, la più "famosa" delle quali è la sentenza 18/2001 che equipara gli organismi prodotti col genome editing agli OGM, prodotti invece con la transgenesi. Crede possibile un cambio di rotta in questo senso?
Ritengo che a breve termine i migliori ibridi resistenti di ultima generazione potranno essere impiegati come varietà complementari all’interno di talune Dop per rendere più ecologica la coltura della vite. A lungo termine, peraltro, la risposta più risolutiva per ridurre l’impatto ambientale della viticoltura potrà essere data dalla applicazione “diretta” alla Vitis vinifera delle tecniche del “genome editing”, note anche come Tecniche di evoluzione assistita (Tea), mediante le quali si possono ottenere mutazioni specifiche nella sequenza di una serie di geni responsabili della sensibilità a oidio e peronospora, producendo così “cloni” di vite europea “insensibili” a tali fitopatie.
Le ricerche con il genome editing applicato alla Vitis vinifera sono già molto avanzate presso i laboratori dei nostri migliori centri di ricerca (Università, Crea, Istituzioni private) e non è un caso che alla fine dello scorso anno l’Onorevole Gallinella, Presidente della Commissione Agricoltura della Camera, abbia presentato, sotto l’egida del Crea, una proposta di legge per consentire la sperimentazione in campo aperto delle accessioni ottenute con le Tea. È pur vero che la direttiva 18/2001 della Corte di giustizia europea ha etichettato come OGM gli organismi prodotti con il genome editing, che quindi non sono ammessi alla coltura nelle nazioni Ue, ma questa anacronistica posizione, geneticamente sbagliata, si sta indebolendo sotto la spinta delle argomentazioni della scienza internazionale: i segnali che arrivano da Bruxelles sono positivi e sembrano indicare che l’ostacolo normativo potrebbe essere superato nel corso di questo stesso 2022.
Se nei prossimi mesi la Commissione europea e il Parlamento europeo faranno decadere la Direttiva Ue 18/2001, i primi “cloni resistenti” di alcuni vitigni italiani di eccellenza, come il Glera, il Sangiovese, il Montepulciano, l’Aglianico e moltissimi altri, che costituiscono i punti di forza della nostra produzione enologica e spesso rappresentano più dell’80% della base ampelografica dei rispettivi disciplinari, potranno essere omologati nel giro di cinque-sei anni. Poiché tali biotipi saranno cloni a tutti gli effetti, dovrebbero poter essere impiantati con le stesse regole che valgono per qualsiasi altro clone omologato, senza i problemi burocratici che incontrano le varietà nuove per essere ammesse alla coltura.
In questa prospettiva e considerando che la vita media di un vigneto si aggira sui 25-35 anni, è possibile ipotizzare che attorno al 2050-2060 molte aree Dop e non Dop, oltre ad aver inserito gli ibridi nei disciplinari, avranno reimpiantato, almeno in parte, la superficie a vigneto dei loro principali vitigni europei utilizzando i cloni resistenti degli stessi vitigni. Sarà l’impiego generalizzato di tali cloni a comportare nella nostra viticoltura un significativo abbattimento nel consumo degli anticrittogamici (50-70% in meno), in accordo con il modello richiesto dalla Pac, che prescrive una progressiva riduzione nell’uso degli agrofarmaci, finalizzata al concreto miglioramento della sostenibilità ambientale.