Qual è il “carbon footprint” delle attività zootecniche?

di Mauro Antongiovanni
  • 16 February 2022

Il “Global Feed LCA Institute” (GFLI) è un’istituzione indipendente che ha lo scopo di sviluppare e pubblicare un database relativo all’alimentazione nelle attività zootecniche, a supporto della corretta informazione riguardo all’inquinamento ambientale a queste attività attribuibile. Ciò attraverso uno strumento definito “”Animal Nutrition Life Cycle Analysis”, in accordo con la “Livestock Environmental Assessment and Performance Partnership (FAO/LEAP) delle Nazioni Unite, che detta le linee guida per l’industria mangimistica e per la corretta nutrizione animale.
Le produzioni animali hanno un impatto sulla sostenibilità ambientale per il loro contributo alla produzione di gas serra, di anidride carbonica in particolare. Tale contributo, indicato come “carbon footprint”, viene troppo spesso artatamente sopravalutato. Ma ne conosciamo veramente le dimensioni?
Ebbene, il Global Feed LCA Institute si propone di condurre un’analisi sugli ingredienti degli alimenti destinati agli animali, la “Life Cycle Analysis (LCA)”, i cui risultati saranno pubblicati in database entro la metà del 2022.
L’agricoltura ha la sua parte di responsabilità nella produzione dei gas serra, per cui la riduzione dei gas che contengono carbonio, anidride carbonica e metano prodotti dalle attività agricole, costituisce un passo importante nei riguardi del contenimento sostenibile del riscaldamento globale, come è stato ancora una volta ribadito alla conferenza delle Nazioni Unite COP26 a Glasgow qualche mese fa.
Il GLFI produce stime di previsione delle emissioni di CO2 equivalenti di una vasta gamma di categorie impattanti di ingredienti degli alimenti per animali in allevamento.
L’articolo di Emmy Coeleman su  All about Feed del 10 gennaio u.s. informa che GLFI usa per i calcoli una metodologia basata sulle linee guida di “Livestock Environmental Assessment and Performance” (LEAP) della FAO e di “Product Environmental Footprint Category Rules” (PEFCR) della Unione Europea.
Tutte queste sigle ci tranquillizzano sul fatto che il problema del controllo delle emissioni di gas serra attribuibili alle attività zootecniche viene preso sul serio: un team di esperti discute regolarmente ed aggiorna le metodologie di stima e di calcolo, tanto da presentare l’istituzione GFLI come un affidabile riferimento globale per l’industria mangimistica. Senza entrare, per ovvi motivi, nei particolari dei metodi di stima, l’articolo ci informa che vengono in primo luogo considerati: il tipo di colture prodotte (ad esempio mais, frumento, soia, ecc.), gli interventi di preparazione degli alimenti (ad esempio macinazione, miscelazione, pellettatura, altro), i trasporti, le modifiche d’uso della terra (ad esempio da pascolo o da foresta a monocolture), il tipo di suolo (ad esempio i terreni torbosi rilasciano grandi quantità di gas serra se lavorati), il clima.
Al momento attuale GLFI conta fra i suoi membri associati 11 aziende fra fornitori, mangimisti, produttori di additivi ed integratori e 7 associazioni, delle quali 5 sono membri fondatori. Si vorrebbe arrivare a indicare sull’etichetta del mangime finito il valore dell’“environmental carbon footprint” del prodotto, per orientare i consumatori.
In effetti, l’interesse verso tutto questo sta aumentando, di pari passo con il crescente interesse verso le iniziative come il recente COP26 di Glasgow.
L’articolo chiude osservando che, per il momento, l’interesse è abbastanza circoscritto al continente europeo. L’auspicio è quello di interessare anche i Paesi di altri continenti, in particolare asiatici, senza fare nomi.