La transizione ecologica non sarà un pranzo di gala

di Lorenzo Frassoldati*
  • 01 September 2021

Il 13 agosto sono arrivati dalla BCE i primi due assegni miliardari (totale circa 24 miliardi) a titolo di prefinanziamento all’Italia nell’ambito del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. “La sfida economica più importante dal secondo dopoguerra ad oggi”, ha commentato giustamente  il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti. I soldi sono in cassa, adesso bisogna cominciare a lavorare, il gioco si fa duro. E qui cominciano i problemi. La transizione digitale – a mio modesto parere – è forse un obiettivo più alla portata dell’altra transizione, quella ecologico-ambientale, che in Italia impatta (come ha scritto Federico Fubini sul Corriere della Sera) “su oltre 40 settori e 2,1 milioni di lavoratori. Più indotto. Abbattere la CO2 è necessario. Ma questa svolta è come la globalizzazione Anni 90. Gli impreparati saranno travolti, come noi lo fummo dall’ingresso della Cina nel WTO. Ma in Italia lo capiamo? O ci arriveremo ancora una volta in ritardo?”.
Con i soldi in tasca, ci stiamo rendendo conto di cosa significhi la transizione ecologica in assoluto e in particolare per l’agroalimentare. Voci preoccupate già si sono levate.
“Tutti ambientalisti coi soldi degli altri”, dice in un’intervista il ministro alla Transizione ecologica, Roberto Cingolani (FOTO). “Se i sacrifici e i costi non saranno condivisi, ci troveremo senza risultati e senza occupazione”. Se lo dice il ministro…  possiamo credergli.
Un altro ministro con la testa sulle spalle, Giancarlo Giorgetti, in altra intervista (Corriere della Sera, 15 agosto) ammette che il rischio è “di mettere una palla al piede dell’industria europea mentre le altre grandi economie si fanno meno problemi e corrono”. Sul Pacchetto Fit for 55, il Piano della Commissione UE per ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 rispetto al 1990 esprime “grande preoccupazione”. Rischiamo “di spostare una parte eccessiva dei costi della transizione ecologico/ambientale sulle piccole e medie imprese e sulle famiglie dei ceti medio-bassi… gettando i semi di una protesta sociale”, con esiti imprevedibili. Quindi? La sostenibilità ambientale è decisiva, ammette Giorgetti, “ma io ho in mente un triangolo fatto di sostenibilità ambientale, economica e sociale. Ogni angolo è un pilastro fondamentale, se ne manca uno viene giù tutto”. Il triangolo delle tre sostenibilità interessa da vicino il  settore primario e l’agroalimentare. Ma mentre il food, cioè l’agroalimentare (che festeggia il traguardo dei 50 miliardi di export) è un settore industriale  che risponde a logiche imprenditoriali, con forti capacità contrattuali nei confronti degli altri attori della filiera, il settore primario (cioè quello che produce la  materia prima) resta al momento l’anello debole della catena.
L’ortofrutta è alle prese con l’ennesima campagna estiva negativa, falcidiata nella produzione da eventi climatici, patogeni, parassiti ecc ecc. I prezzi al dettaglio sono alti, i consumi quindi non decollano. Anche perché la qualità spesso è così così. Le polemiche sulle ciliegie pugliesi o sulle angurie ‘regalate’ da alcune catene sono puro folclore. Non vogliono dire niente.  Manca il trasferimento del valore alle imprese agricole, siamo sempre lì, il valore si  disperde lungo la filiera. Le grandi imprese, OP, cooperative presentano bilanci sempre in buona salute (apparente) , ma i soci produttori tirano la cinghia, sopravvivono (magari perché in famiglia ci sono altri redditi). Quando va bene, coprono appena i costi di produzione e quando (spesso) va male,  lavorano in perdita. Adesso poi l’aumento dei prezzi delle materie prime e delle commodities energetiche, dei noli marittimi aggravato dalla carenza dei container, azzoppa il nostro export già in difficoltà. Il settore primario è chiamato ad una grande sfida, questa transizione ecologica non sarà un pranzo di gala, avrà un poderoso impatto economico e sociale. Serviranno valutazioni preventive, le scelte andranno condivise , non dovranno calare dall’alto.
Le imprese agricole chiaramente sono le prime interessate all’innovazione, a rendere più efficienti e meno costosi i processi produttivi , a curare di più il territorio, alle energie rinnovabili, a usare sempre meno chimica (o a ridurla del tutto). Si tratta di capire in quali tempi, con quali sostegni, con quali alternative agli attuali mezzi di difesa. Il PNRR assegna circa 5 miliardi di euro ai progetti del settore agroalimentare: dalla meccanizzazione, ai contratti di filiera, all’irrigazione. Altri tre miliardi sono destinati alle agro-energie, a cui si aggiungono gli stanziamenti a favore delle innovazioni tecnologiche. I soldi ci sono, vanno spesi bene e in tempi rapidi (entro il 2026). Il fatto che il 40% degli stanziamenti passerà per le amministrazioni locali mette i brividi. Se i tempi della burocrazia autorizzativa (a livello di territori, Regioni, Comuni, ASL ,ecc) sono quelli attuali, stiamo parlando di niente.


*Direttore del Corriere Ortofrutticolo (26/8/2021)