Ortofrutta uguale benessere? Sembra scontato ma non lo è. I limiti della commodity.

di Lorenzo Frassoldati
  • 30 June 2021

Mai dare per scontato nulla. Ortofrutta uguale benessere. Sembra una banalità, un luogo comune. Ma non lo è. Leggo che un istituto di ricerca ha valutato i volantini di Iper, Super e Superette che promuovono prodotti salutistici e la scoperta – sgradita – è che di ortofrutta non si parla mai. Uno pensa: nel food salutismo fa rima con ortofrutta, quasi banale. In realtà sta di fatto che in quel caso si parlava di salutismo e l’ortofrutta non c’era. Solo un caso?
Qualcuno dirà che l’ortofrutta non garantisce ai retailer i margini di altri prodotti; qualcun altro dirà che le imprese dell’ortofrutta investono poco sull’immagine dei loro prodotti, sta di fatto che il comparto sta sui giornali (e sui volantini) solo per le promozioni an basso costo, accreditando sempre più l’immagine di una commodity generica, senza un particolare universo valoriale di riferimento che possa colpire il consumatore.
Eppure… eppure tanto ci sarebbe da fare. Pensiamo alla rivoluzione vegetale di cui tanto si parla (tra gli addetti ai lavori). I consumi di ortaggi crescono, al contrario di quelli della frutta. La stessa espressione "rivoluzione vegetale" è stata coniata e studiata da Claudio Scalise in diversi suoi interventi di cui abbiamo dato conto anche su queste pagine. Questa rivoluzione (consumi in crescita, nuovi prodotti, ecc) non può prescindere da alcuni dati di fatto: i prezzi degli ortaggi al consumo restano bassi, quelli della frutta no. Poi il trend della IV e V gamma tende a valorizzare gli ortaggi, le insalatine, le zuppe, i piatti pronti, ecc. Quindi fa oggettivamente da traino al mondo vegetale. Poi c’è la crescita dell’universo vegetariano-vegano, che su quel mondo fonda il proprio stile alimentare.
Ancora. Prendiamo uno dei temi mainstream che dilagano su giornali, radio e televisioni: la cucina, la gastronomia. I cuochi sono i profeti delle mode alimentari: vedo ovunque ricette a base di ortaggi, alcune molto ‘creative’ come ‘cavolfiore in bistecca’, dello chef Roberto Allocca. Ma di cucina vegetale sono piene le pagine di settimanali e mensili, le rubriche televisive, i blog di influencer sulla Rete (Instagram, Facebook ecc). Il collegamento con la gastronomia (e coi territori, da cui l’enoturismo) è stato uno dei motivi di successo del vino italiano nel mondo, una reciproca sinergia che ha funzionato. L’ortofrutta è anni luce indietro, poche sono le imprese che promuovono i loro prodotti attraverso show-cooking o arruolando chef e influencer; meno che mai si parla di territorio… eppure ci sarebbe tanto da raccontare, soprattutto al Sud (pensiamo alla limonicoltura ‘eroica’ nella Costiera amalfitana). L’ortofrutta resta una commodity nell’immaginario collettivo, nelle relazioni di mercato con le catene dei retailer ma spesso anche nella testa delle imprese produttrici. Certo, nulla è gratis, queste azioni di marketing costano, ma siamo certi che mettendo insieme le risorse, andandole a cercare magari tra le pieghe dell’OCM, non si potrebbe iniziare a fare qualcosa? D’accordo che bisogna lavorare sulla qualità del prodotto ma anche l’immagine conta, la cosiddetta reputation. Il boom della frutta secca non è nato anche da una campagna di promozione dei consumi che ne ha completamente ribaltato l’immagine? Non si potrebbe, ad esempio, lavorare sulla frutta proponendola – soprattutto d’estate – come fine pasto al posto del dessert? E mettere qualche chef a proporre ricette creative? Servono azioni di sistema: qualcosa si vede nel mondo delle mele, dei piccoli frutti, delle fragole… ma sono iniziative isolate, sporadiche. Italia Ortofrutta Unione Nazionale si impegna meritoriamente sul tema “ortofrutta e sport” in collaborazione con Fidal, la federazione italiana di atletica leggera. Ma nel complesso l’ortofrutta resta una commodity, con una immagine “un po’ sfigata” (copyright Francesco Pugliese). E con i problemi di una commodity: prezzi, logistica, costo del lavoro, imballaggi, relazioni di filiera. Solo poche imprese, quasi sempre di grandi dimensioni, riescono a superare “i limiti della commodity investendo in brand varietali e in marchi di prodotto. Queste imprese grazie alle economie di scala e alla differenziazione dell’offerta riescono a competere con successo anche sul mercato internazionale, dove le sfide sui prezzi si giocano intorno a pochi centesimi”, come ha scritto il nostro prof. Corrado Giacomini in un recente editoriale.
L’impressione è che il settore, alle prese con problemi basici di sopravvivenza, non riesca a fare il salto di qualità verso una dimensione di marketing più evoluta, e che le iniziative promozionali restino quasi sempre in carico ai retailer che hanno forza e mezzi economici per farlo. Alcuni rispettando il prodotto e il lavoro dei produttori, ma anche facendo disastri con promozioni umilianti e sottocosto vergognosi.
Cambierà qualcosa con la nuova normativa sulle pratiche sleali? È lecito dubitare.

da: Corriere Ortofrutticolo, 22/6/2021