Dal laboratorio anti-Covid, al laboratorio pro-bistecche?

di Giuseppe Bertoni
  • 07 April 2021

Ritengo giusto dare atto al Prof. Costato per il richiamo, fatto su "Georgofili Info" del 31 marzo 2021 (http://www.georgofili.info/contenuti/lo-storico-problema-dellalimentazione-la-sicurezza-degli-approvvigionamenti-la-food-sovereignty-e-la/15528), di quanto sia importante la produzione agricola in qualche modo “autarchica” in tempi di certezze sempre più evanescenti, come il COVID-19 sta insegnando. Interessante la “carrellata” storica a partire dal tardo Paleolitico per arrivare ai giorni nostri con gli alti e bassi della sicurezza alimentare (seguiti da conseguenze talora drammatiche per le popolazioni italiane), alla cui origine ben diverse sono state le motivazioni nel tempo. Un documento, quello del Prof. Costato, da meditare soprattutto in tempi che si caratterizzano per una scarsa attenzione alla disponibilità di cibo – quasi fosse un assunto - preferendole altri aspetti ugualmente essenziali: qualità, ambiente, benessere animale ecc., ma col rischio di perdere l’avverbio “ugualmente” per diventare prioritari.
Per contro, della posizione del Prof. Costato, 3 sono gli aspetti che suscitano in me una qualche perplessità e che, in certa misura, sono interconnessi in quanto convergono nel 3° di essi insito nella frase: “arrivare ad una riduzione drastica degli allevamenti per diminuire la produzione di metano e CO2, alla sostituzione della carne con prodotti di laboratorio contenenti altre proteine derivate probabilmente da molecole di carne che non hanno mai vissuto in una stalla,…”.
I primi due aspetti riguardano: i) la mancata segnalazione che, fra il 1500 e il 1800, la rapida crescita della popolazione, e la necessità di coltivare a più non posso, portò a contrarre lo spazio per gli animali allevati con una serie di conseguenze di cui la minore altezza dei giovani è stato un indice inequivocabile (seppure il meno grave); ii) parlare di surplus nel caso dei prodotti alimentari provenienti dalle colonie del Regno Unito e di altri Paesi coloniali, è un eufemismo giacché le popolazioni locali di tali colonie non vivevano certo nell’abbondanza, specie per gli alimenti di origine animale.
Tuttavia, di maggiore interesse per me è l’invito a questa “drastica riduzione” degli allevamenti che, anzitutto, non è chiaro se limitata all’Italia come sembra:
    • In un Paese dove la zootecnia non è fra le massime espressioni dell’attività agricola;
    • In un Paese dove l’Ispra (2020) parla di un 7% delle emissioni di CO2 dell’intero comparto agricolo;
    • In un paese dove il consumo, specie di carni, supera di poco quei minimi sotto i quali significherebbe rischio di malnutrizione, specie per i giovani, le donne e gli anziani;
    • In un Paese dove il bosco sta tornando alla grande e per molte ragioni – non ultima quella paesaggistica che vede gli animali selvatici e allevati in “pole position” – per cui tale ritorno andrebbe visto entro forme silvo-pastorali che accrescono l’effetto “sink” del carbonio.
Riduzione degli allevamenti alla quale si aggiunge – per non far mancare giustamente la carne e le sue prerogative nutrizionali - qualcosa che sa più di provocazione che altro; ma davvero si pensa – al pari di Bill Gates nel suo ultimo “sforzo” letterario, in cui per inciso riconosce di aver scoperto che esistono gli agronomi – che la soluzione stia nella carne fatta in laboratorio? Non credo sia questa la sede per entrare nel merito, ma quantomeno mi parrebbe prematuro parlarne in termini risolutivi, a meno che le ragioni alla base di tutto stiano in quell’ultima parola da me riportata…”stalla”. Poiché neppure voglio ipotizzare l’esistenza di simili “retro-pensieri” e semplicemente continuo a ritenerla una provocazione, mi limito a concludere che l’argomento non dobbiamo lasciarlo cadere, poiché molti sono i segnali di fughe in avanti (ahimè insensate), in particolare dell’agricoltura europea, e una qualche presa di posizione autorevole sarà pure necessaria.