Sapremo mai come stanno veramente le cose sull’argomento “diete e sostenibilità”?

Come orientarsi nella diffusione di notizie false per “campanilismo” dietetico.

di Mauro Antongiovanni
  • 09 September 2020

Più si legge sull’argomento e più si rimane confusi. Nei paesi ricchi, le scelte possibili sono fra la dieta mediterranea, la dieta vegetariana, la dieta vegana, la dieta fast food, la dieta delle grigliate in giardino, la dieta a base di pop corn al cinema e infinite altre amenità. Nei paesi poveri, purtroppo, il problema della scelta non si pone. In ogni caso, è inevitabile domandarci: ma quando saremo nove, dieci, undici miliardi, il nostro pianeta sarà ancora in grado di fornire cibo sufficiente per tutti, a prescindere dalla dieta che si sceglie? Leggendo qua e là, si trovano opinioni diverse e contrastanti, anche opposte, riguardo alle varie diete e alla loro sostenibilità.
Cerco di riordinarmi le idee e di riassumere che cosa ho capito.
La dieta mediterranea, come è noto, è basata largamente su frutta e verdura, con poca carne di qualsiasi tipo, pesce, latticini, olio di oliva e un bicchiere di buon vino. A sentire chi la propone e la pratica, è salutare e gradevole. C’è da crederlo, visto che il biologo americano Ancel Keys che, per praticarla meglio si era trasferito dalle nostre parti, è morto a 101 anni.
La dieta vegetariana non utilizza alimenti di origine animale, con l’eccezione del latte e delle uova. Può essere altrettanto valida in termini di soddisfacimento di tutti i fabbisogni nutritivi.
La dieta vegana non ammette assolutamente alcun alimento di origine animale e, per questo, non può garantire l’apporto di tutti i nutrienti necessari, a cominciare dalla vitamina B12, dagli acidi omega 3, dal ferro assimilabile, per non parlare della vitamina D3 e del calcio. Pertanto, chi adotta questa dieta, per qualsiasi ragione lo faccia, deve per forza ricorrere alla integrazione con prodotti dell’industria chimico-farmaceutica per non incorrere in gravi problemi di salute del tipo anemie, rachitismo e fragilità ossea o scarso sviluppo del sistema nervoso. Dietro alla dieta vegana si muovono, ovviamente, interessi industriali, commerciali e dell’editoria che la sostiene.
Il fast food, le grigliate all’americana o l’abuso di pop corn e bibite gassate e zuccherate, non sono neanche da prendere in considerazione perché palesemente nocive.
Date queste premesse, la scelta da fare non sembrerebbe difficile. Ma, ci avvertono i vegetariani ed i vegani, state attenti perché una dieta che comprenda la carne non è sostenibile: gli allevamenti sono i maggiori e più pericolosi produttori di gas serra, insaziabili consumatori di acqua e di terra. Tale è il messaggio che ci viene dal rapporto FAO del 2006, dal lugubre titolo “Livestock’s long shadow” o da pubblicazioni come i libri dell’economista Jeremy Rifkin, che ha scritto: “penso che riusciremo a dimostrare che l’agricoltura è la causa principale dei cambiamenti climatici. Per il momento, l’ONU e la FAO dicono che sia la seconda causa. Ma, se noi mettiamo insieme tutto ciò che accompagna le attività agricole, riusciremo a dimostrare che l’agricoltura è la prima causa”. Mi sono chiesto che cosa mangerebbe questo signore senza l’agricoltura.
Per chiarirmi le idee, ho cercato di orientarmi nel dedalo di informazioni e dati sull’argomento. Il primo aspetto da chiarire riguarda la percentuale di responsabilità delle attività agricole, degli allevamenti animali in particolare, rispetto alle emissioni inquinanti, al consumo di acqua, di terra e di foreste, da confrontare con le responsabilità delle industrie, delle centrali elettriche, dei trasporti, della climatizzazione domestica e pubblica.
Semplificando al massimo, dai dati disponibili risulta che alla produzione globale dei gas serra contribuiscano: l’acqua che, sotto forma di vapore e di nubi, è il gas serra più potente, per circa il 75%; le centrali di produzione di energia per circa il 7%; le attività agricole e la deforestazione per un altro 7%; l’industria per il 5%; i trasporti per il 4%; e la climatizzazione per circa il 2%.
I dati rilevati dalla NASA dopo il lockdown dei mesi scorsi ci dicono che la concentrazione dei gas serra in atmosfera, al netto dell’acqua, è diminuita di circa il 25%, come conseguenza del blocco dei trasporti e di molte attività industriali e commerciali, insieme al risparmio di energia elettrica. Poiché le attività zootecniche non hanno subito rallentamenti significativi in quel periodo, sembra legittimo concludere che, se anche diventassimo tutti vegani, il problema del riscaldamento globale non sarebbe sensibilmente ridotto. E rimarrebbero tutti i problemi conseguenti alle carenze nutrizionali della dieta vegana.
Ma c’è di più: per sfamare i sette-otto miliardi di persone che attualmente popolano il nostro pianeta con prodotti esclusivamente vegetali, un pianeta non basterebbe perché non tutti i terreni agricoli sono adatti per le produzioni di vegetali commestibili per l’uomo. Lasciamo che gli animali, in particolare i ruminanti, ci forniscano proteine di elevato valore biologico, vitamine, minerali assimilabili, acidi grassi indispensabili, a partire da alimenti come i fieni o gli insilati di mais, assolutamente inutilizzabili dall’uomo.
Molti studi hanno dimostrato che qualcosa si può fare, ad esempio, per diminuire la produzione di gas serra degli allevamenti lavorando, soprattutto, sulla alimentazione degli animali, la gestione dei liquami e l’uso intelligente dei terreni. In particolare, si possono ridurre le emissioni di metano e composti azotati.
Ma anche gli altri settori produttivi delle attività umane devono fare qualcosa.
Serve collaborazione e non diffusione di notizie false per “campanilismo” dietetico.


Fonti: FAO, 2006 e 2019; Rifkin, 2016; IPCC, 2019; Bertaglio, In difesa della carne, 2018; NASA, 2020.