Il lungo viaggio del Taleggio, dalle pianure dell'Europa Centrale alle valli lombarde

  • 24 June 2020

Il Taleggio è uno dei pochissimi formaggi italiani a crosta lavata o crosta rossa. Con questa espressione ci si riferisce a quei formaggi la cui superficie viene ripetutamente lavata e spazzolata durante le fasi di produzione o stagionatura, per evitare che si formino muffe nocive indesiderate. È benvenuta invece la crescita di particolari batteri che conferiscono alla crosta una colorazione tipica, che può acquisire sfumature dal rossastro al marrone.
Il Taleggio rientra in questa rara tipologia e si presenta come un parallelepipedo a base quadrata, con una crosta naturalmente rosata dove spesso si può notare la presenza di microflora (muffe nobili) che si sviluppa qua e là in modo non invasivo, tanto che si parla anche di crosta “fiorita”, quasi a sottolineare la delicatezza di questa impalpabile lanuggine. Ma la cosa importante per i golosi di formaggio è ciò che si trova al di sotto di questa particolare superficie, che peraltro non è necessario tagliare prima del consumo, visto che è sufficiente raschiarla un po’. Ossia una pasta di colore bianco-bianco avorio, di consistenza uniforme e compatta, più morbida sotto la crosta e più friabile al centro, con occhiatura piccolissima. Il sapore è dolce, con una lievissima vena acidula ed è delicatamente aromatico, con un delizioso retrogusto a volte “tartufato”. Cremoso e vellutato, si fonde molto facilmente, per questo è un ottimo ingrediente nella preparazione di risotti, polenta, pizze e crêpes.
Queste caratteristiche gli derivano dal metodo di produzione che prevede latte vaccino intero – crudo o pastorizzato a seconda che si tratti di una preparazione artigianale o meno – innestato con gli ormai osannati (perché presenti negli yogurt) Lactobacillus bulgaricus e Streptococcus thermophilus, cioè batteri lattici selezionati. Dopo la rottura della cagliata, per cui si usa solo caglio liquido di vitello, la preparazione viene messa negli appositi stampi quadrati, con lato di 18-20 centimetri di lunghezza. La fase successiva è quella della salatura, che di solito è fatta a mano o in salamoia. Poi la delicata fase della stagionatura che si effettua su assi di legno, in celle che riproducono perfettamente le condizioni ambientali delle grotte naturali in cui in passato avveniva la maturazione. Si tratta di un periodo di almeno 35 giorni durante i quali le forme vengono girate spesso e sottoposte a spugnatura, il lavaggio che impedisce la formazione di muffe anomale.
Il procedimento, oggi sottoposto passo dopo passo al controllo del Consorzio Tutela Taleggio per garantire forme a Denominazione di Origine Protetta (marchio ottenuto nel 1996) è incredibilmente simile a quello antichissimo raccontato dallo storico latino Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia. È così che ne conosciamo l’antenato diretto e le origini antichissime, forse anteriori al X secolo. Secondo Plinio, quello che oggi chiamiamo Taleggio sarebbe nato dai casari Orobii, una tribù dell’Europa Centrale che nel IV secolo a.C. attraversò le Alpi diffondendosi nella pianura padana in modo pacifico e unendosi a poco a poco alle popolazioni italiche. Gli Orobii, abili allevatori, erano artisti della lavorazione del latte e, una volta stabiliti tra i monti lombardi, gettarono le basi del futuro Taleggio, un formaggio "fatto di latte fresco di vacca", come si legge in una testo di Venanzio Fortunato del VI secolo d.C., "raccolto in stampi foderati di lino".
Fortunato sembra davvero descrivere la produzione di Taleggio come noi oggi la conosciamo: "Poggiati su stuoini gli stampi, si attende che il formaggio sia asciutto per poi strofinarlo con sale e lasciare maturare tutto per trenta giorni. Il cacio è di colore avorio paglierino, con sfumature di un lieve colore rosato". Altri documenti del 1200 dimostrano che c’erano scambi commerciali tra cittadini e valligiani, che, non solo avevano iniziato a produrlo in gran quantità, ma soprattutto avevano imparato a farlo maturare in grotte o casere di vallata.
A poco a poco si diffondeva la fama di questo formaggio e anche il suo nome cominciava a definirsi. Se Plinio parlava di ‘caseus’ e poi nel Medioevo ci si riferisce al generico ‘cacio’, dal Rinascimento in poi si comincia a parlare di "formaggio saporito di forma quadra", poi di "formaggio lombardo maturato in grotta", passando per "stracchino di Milano", fino all'appellativo di "stracchino fatto come in Val Taleggio". Perché stracchino? Perché fino a pochi decenni fa, quasi tutti i formaggi a pasta molle prodotti in Lombardia erano detti genericamente “stracchini”, con termine che rimanda alla parola dialettale ‘stracch’ che significa stanco e allude alle mucche giunte in pianura dopo un lungo periodo di permanenza in alpeggio.
Il nome Taleggio avrà la sua consacrazione quando non sarà più unito alla parola stracchino e ciò accade per la prima volta nel libro "Della fabbricazione dei formaggi" del 1872.

da Repubblica.it, 15/6/2020