Televisione e agricoltura, fra narrazione e realtà

Le trasmissioni televisive degli ultimi decenni hanno deformato l'immagine dell'agricoltura e della zootecnia, dipingendole da un lato come fonti di disastri ambientali e sanitari, oppure sdoganando ritratti bucolici più consoni al food entertainment che alle produzioni agricole

di Donatello Sandroni
  • 13 May 2020

Le attuali trasmissioni televisive che parlano di agricoltura restituiscono spesso un'immagine deformata delle pratiche agricole da cui dipende la sicurezza alimentare degli Italiani. Se si parla di agricoltura, infatti, si fa per lo più in due modi: o raffigurandola come un romantico spaccato di varietà e razze antiche, coltivate le prime con le zappe e nutrite le seconde coi forconi dei bisnonni, oppure tramite servizi finalizzati a scandalizzare i telespettatori, mostrando le attività agricole come una ridda di nefandezze ai danni di salute e ambiente. E questo nonostante gli impatti agricoli siano da tempo in forte calo sotto molteplici punti di vista. Oltre però al palese orientamento ideologico di certi programmi, ad aggravare ulteriormente il quadro c'è anche il fatto che nessun conduttore che si è alternato nella narrazione pare possegga la benché minima infarinatura di cosa sia l'agricoltura.
Finiti quindi i tempi della ''Tv degli agricoltori''(1), trasmissione nata nel 1955 e proseguita fino al 1969. Un programma tecnico-didattico un po’ ingenuo rivolto ai contadini, all'epoca ancora importanti dal punto di vista sociale, economico e soprattutto elettorale. Ad essa subentrò "A come Agricoltura", programma di Rai 1 che andò in onda dal 1970 al 1981 continuando a raccontare come veniva prodotto il cibo che arrivava sulle tavole degli Italiani e descrivendo i problemi di cui il comparto agricolo pativa. Il cambio di passo avvenne fra il 1978 e il 1980, quando subentrò Giovanni Minoli, sotto la cui guida il programma cambiò ancora nome in "Agricoltura domani". Questa fu la naturale evoluzione dei programmi precedenti fondendo però diversi generi e tecniche televisive. Da descrizione di ciò che l'agricoltura era, rivolgendosi prettamente agli agricoltori, la creatura di Minoli assunse sempre più le vesti dal giornalismo investigativo, con alcuni sentori perfino di fiction e dando vita a veri e propri speciali di inchiesta. In sostanza, fu sotto Minoli che le trasmissioni sull'agricoltura smisero di parlare agli agricoltori e iniziarono a rivolgersi ai consumatori. In quegli anni, del resto, si era ormai perso ogni interesse verso i “contadini”, divenuti politicamente e mediaticamente insignificanti. Nascono concettualmente allora le trasmissioni sedicenti d’inchiesta che dipingono l'agricoltura quasi fosse una fonte continua di crimini contro ambiente e salute. Una costanza persecutoria che se dovesse mai esistere il reato di "istigazione all'odio agricolo", come esiste quello per l'odio razziale, sarebbe interessante vedere come andrebbe a finire. Per contro, l'evoluzione delle trasmissioni dedicate esclusivamente all'agricoltura è proseguita in direzione opposta. Nel 1981 a raccogliere l'eredità di Minoli fu Federico Fazzuoli che diede vita a Linea Verde togliendo dal nome perfino la parola “agricoltura”. In cambio vennero inserite donne di spettacolo come Catherine Spaak e Gigliola Cinquetti, affiancate da un cuoco che illustrava prelibatezze tipiche e locali. Purtroppo, se a parlare di agricoltura ci si mettono soubrette, gastronomi e cuochi, il destino degli agricoltori pare decisamente segnato. Un trend che poi è proseguito anche quando Fazzuoli lasciò il passo ad altri conduttori, nel 1994: una sequenza di attori, modelle, Miss, cuochi e gastronomi che completarono la metamorfosi di un programma nato per l’agricoltura in uno incentrato sul food entertainment, tutto turismo ed enogastronomia. E così, conduttore dopo conduttore, si è consolidata nei telespettatori l'idea che quella mostrata in tv sia l'agricoltura cui si dovrebbe tendere, in contrasto con quella brutta e cattiva chiamata "intensiva" contro la quale sguazzano appunto le trasmissioni di "inchiesta". Il malgaro che produce qualche chilo di formaggio è in tal modo assurto a contraltare dei caseifici da centinaia di tonnellate di formaggi, distribuiti questi a prezzi accessibili per milioni di Italiani.
Le due realtà possono convivere benissimo ed è un bene vi siano entrambe, evitando magari di demonizzare quella che regge la baracca per tutti, né raccontando fanfaluche agresti su quella che copre solo minima parte dei fabbisogni agroalimentari italiani, già oggi ampiamente asfittici e deficitari. Una sproporzione, questa, che non viene mai trasferita a un pubblico che in tal modo s'illude che quella mostrata sia un'agricoltura alternativa possibile, senza allevamenti presentati come "lager" e senza odiati "pesticidi" e concimi chimici, cioè quelli senza i quali mancherebbe oltre metà del cibo. Una dimensione parallela che sa di ubriacatura collettiva per far passare la quale servirebbe forse qualche rovescio agroalimentare, un po' come accade oggi con il Covid-19 nei confronti degli haters dei vaccini e di BigPharma. Ma il prezzo che si dovrà pagare in tal caso sarà altissimo. E di certo non lo pagheranno registi, produttori e conduttori delle trasmissioni che hanno contribuito a tale disastro.

1) Gian Luigi Corinto* (2013): "La TV degli agricoltori. The italian television broadcasting for farmers until 1970". Agricoltura – Istituzioni – Mercati, n° 1-2/2013, pag. 273. * Università di Macerata.


N.B. L’Articolo in originale è su “Agronotizie”:
https://agronotizie.imagelinenetwork.com/agricoltura-economia-politica/2020/04/28/agricoltura-e-televisione-cronaca-di-un-divorzio-annunciato/66670?utm_campaign=newsletter&utm_medium=email&utm_source=kANSettimanale&utm_term=719&utm_content=3659&refnlagn=title