La scure di Trump sui trattati di libero scambio

di Lorenzo Frassoldati
  • 25 January 2017
America first, Buy american. Le parole d’ordine della campagna elettorale di Donald Trump si sono trasformate, all’indomani del suo insediamento alla Casa Bianca, nel primo provvedimento concreto: l’uscita degli Stati Uniti dal TTP, il Trattato transpacifico di libero scambio con 11 Paesi emergenti dell’area del Pacifico come Cile, Nuova Zelanda, Singapore, Australia, Canada, Giappone, Malaysia, Messico, Perú, Vietnam, Brunei.
L’intento del neopresidente americano è difendere l’occupazione negli States evitando che imprese statunitensi delocalizzino impianti e lavorazioni all’estero, dove il lavoro costa meno. Il TTP è il primo trattato che cade sotto la scure di Trump; la prossima testa che cadrà è il NAFTA, l’accordo con Canada e Messico che la nuova amministrazione americana intende rinegoziare al più presto. Di questo passo è chiaro che è segnata anche la sorte del TTIP, il trattato di partenariato transatlantico tra Europa e Stati Uniti che già arrancava di suo tra mille problemi e resistenze in Europa, e che adesso può considerarsi definitivamente morto. Fine dei grandi accordi commerciali che avevano segnato l’era della globalizzazione e ritorno agli accordi bilaterali tra Paesi? Sembra di sì. Tant’è vero che alcuni Paesi ‘orfani’ del TTP come Australia, Nuova Zelanda e Giappone stanno già lavorando ad un accordo tra le loro macro-aree commerciali. Si annuncia un ritorno al bilateralismo dopo l’era del multilateralismo, con tutte le conseguenze del caso. Stringendo il focus sull’ortofrutta, sicuramente un TTP operativo avrebbe avvantaggiato alcuni Paesi già forti esportatori come Cile, Perù e Nuova Zelanda, che speravano nell’apertura di nuovi mercati. Se l’America solleva il ponte levatoio e si chiude in un dorato isolazionismo/protezionismo (“America first!”) diventa sempre più accidentata e in salita la strada della nostra ortofrutta sui mercati lontani. La via degli accordi bilaterali ci vede non molto allenati e spesso perdenti (vedi la Polonia che in dodici mesi è riuscita a portare le sue mele in Cina, mentre noi ne parliamo da anni…). Sull’apertura di nuovi mercati l’Europa gioca in difesa non all’attacco, quindi dobbiamo arrangiarci da soli.
Puntare sul mercato interno, dove bisogna tentare di dare una scossa ai consumi con azioni promozionali vere ed efficaci e non col solito ritornello che “frutta e ortaggi fanno bene alla salute”, finora dichiaratamente inefficace. Dare la sveglia al mondo politico/istituzionale perché faccia quello che promette, dando segnali concreti al sistema ortofrutta includendolo nei programmi/progetti di internazionalizzazione al pari del vino e degli altri campioni del made in Italy. Sperare che il nuovo feeling Trump-Putin induca il Cremlino a togliere l’embargo (se l’Europa toglierà le sanzioni). Lavorare sulla Cina – anche se non è facile – perché ne vale sempre la pena, viste le dimensioni potenziali di quel mercato. Questa è l’agenda che si deve dare la rappresentanza dell’ortofrutta italiana. Più che mai servirebbe una ‘cabina di regia’, perché con l’era Trump tutto è diventato più difficile. Ma se non ce l’abbiamo, pazienza. Andiamo avanti così col nostro esasperato individualismo. Finora ha funzionato, più o meno.


Da: Corriere Ortofrutticolo, 24/01/2017