Cosa resterà dell’agricoltura italiana?

di Alessandro Bozzini
  • 08 July 2015
Da circa 10.000 anni lo sviluppo dell’agricoltura è stata la condizione sine qua non per garantire una disponibilità di cibo e garantire lo sviluppo di una comunità stanziale. L’agricoltura è stata la innovazione operativa che ha permesso la prima rivoluzione sociale. Successivamente, anche con lo sviluppo della manodopera e dei servizi, ha mantenuto una posizione di preminenza per la sopravvivenza di tutti.
La seconda rivoluzione è stata lo sviluppo della industrializzazione, iniziata con l’invenzione e la disponibilità dell’energia termo-meccanica ed elettrica. Ciò ha permesso l’uso di vari tipi di macchinari agricoli, la produzione di fertilizzanti di sintesi, di antiparassitari e il rapido sviluppo dei trasporti su strada, acqua ed aria. 
La produzione alimentare per unità di territorio, nei Paesi sviluppati, ha quindi permesso, con il progresso delle scienze biologiche, uno straordinario incremento delle produzioni (nel mais oltre 10 volte maggiori!) e degli scambi commerciali. Solo 150 anni fa, secondo uno studio tedesco, occorrevano 4 agricoltori per produrre il cibo necessario per sé stessi e per un non agricoltore. Oggi un agricoltore produce cibo per almeno 100 altri esseri umani! Di qui la diminuzione degli addetti agricoli (nei Paesi sviluppati), a favore degli occupati nelle industrie e nei vari servizi che man mano si sono moltiplicati.
Oggi assistiamo ad un’altra rivoluzione: la globalizzazione e la liberalizzazione degli scambi commerciali, che, ovviamente, coinvolge ormai anche il settore agricolo ed alimentare. La globalizzazione dei mercati, purtroppo attuata in troppo poco tempo, ha portato ad una rapidissima realizzazione degli scambi di informazioni e di beni. Fino a diversi decenni fa, in assenza di facili trasporti ed informazioni, il prezzo dei generi alimentari era basato sul rapporto domanda-offerta a livello locale. Quindi ai bassi livelli produttivi si potevano assommare facilmente gli effetti di annate od eventi favorevoli o sfavorevoli, determinando disponibilità o meno di alimenti, non facilmente risolvibili con il trasferimento di generi alimentari da altre aree produttive, determinando ampie oscillazioni dei prezzi. L’attuale situazione di liberalizzazione degli scambi e della disponibilità di trasporti e la graduale, ma continua diminuzione delle barriere doganali, hanno però portato anche ad uno squilibrio tra aree in cui, a parità di capacità produttive, i costi necessari per la produzione possono essere molto diversi. I Paesi che godono di ampie superfici coltivabili, di bassi costi di manodopera, di mezzi di trasporto rapidi e moderni ed in genere di facilitazioni per l’esportazione sono indubbiamente avvantaggiati, potendo offrire al mercato libero, a costi molto contenuti, i loro prodotti alimentari. 
Oggi, l’agricoltura italiana che, per l’ultimo mezzo secolo ha goduto di una continua protezione a livello nazionale ed europeo, si trova notevolmente spiazzata in quanto, di fatto, non è autosufficiente per le principali produzioni alimentari, principalmente per la carenza del territorio necessario per tali produzioni. 
Infatti sono oggi coltivati in Italia circa 12,5 milioni di ettari; il che significa che, per ognuno degli oltre 60 milioni di persone che abitano nel nostro Paese, sono disponibili poco più di 2.000 metri quadri di terreno agrario: solo un ettaro per 4-5 persone. Da ora in poi dovrà essere un imperativo strategico non sottrarre altre aree produttive per la nostra alimentazione! 
Per i cereali per uso umano o zootecnico, l’Italia è autosufficiente per circa la metà delle richieste di grano tenero, un po’ di più per il duro, mais, orzo ecc. Per produrre le fonti proteiche di base (carne, latte ed uova) l’Italia deve oggi importare tra il 60% ed il 70% dei prodotti necessari per la nostra zootecnia industriale.
Attualmente le nostre esportazioni alimentari riguardano limitati articoli del settore orto-frutticolo, il vino ed alcuni prodotti di trasformazione (pasta, latticini, salumi).
Quindi, la necessità di importare larga parte dei prodotti alimentari primari spinge la nostra industria agroalimentare ad importarli da altri Paesi produttori, che possono in molti casi anche fornirli a prezzi notevolmente inferiori a quelli dei produttori nazionali, che spesso debbono affrontare costi di produzione ben più elevati. Di qui la necessità di arrivare ad accordi nazionali di filiera.
Per superare l’attuale crisi finanziaria occorre incrementare la competitività delle nostre produzioni agricole più importanti, seguendo la domanda di un mercato sempre più esigente. Compito non certo facile, data anche la frammentata e senile struttura fondiaria italiana.



What will remain of Italian Agriculture?

Having enjoyed non-stop protection at a national and European level for the last fifty years, Italian agriculture today is at a loss because, as a matter of fact, it is not self-sufficient for the main food crops, primarily due to a shortage of the land necessary for such production.
Italy has about 12.5 million hectares under cultivation today, which means that, for each of the more than 60 million people who live in our country, just over 2,000 square meters of agricultural land are available: only one hectare for every 4-5 people. From now on, one strategic imperative must be not to steal other production areas needed for feeding ourselves!
The need to import a large part of our basic foodstuffs drives our agribusiness industry to import them from other producer countries that can often supply them at much lower prices than those of our national producers whose production costs are much higher, hence the need to reach national food-chain agreements.