Dall’azienda agricola all’industria alimentare

di Dario Casati
  • 26 February 2014
Nonostante la crisi economica, le connesse preoccupazioni e il calo dei consumi, compresi quelli alimentari, viviamo in una società in cui il cibo non manca.  Ma non è sempre stato così. La sopravvivenza dell’umanità per lungo tempo è stata condizionata dalla disponibilità di alimenti. Dai tempi in cui viveva di caccia, pesca e raccolta di frutti spontanei, a quelli della prima agricoltura e sino ad oggi, l’uomo ha capito che non basta procurarsi l’alimento, ma che è necessario riuscire a renderlo disponibile con continuità e quindi a prolungarne la durata. Accanto all’imperativo della produzione vi è sempre stato quello della conservazione del cibo.
Così si è andata enucleando all’interno dell’agricoltura l’attività di trasformazione degli alimenti che supera la semplice conservazione e diventa l’industria alimentare che conosciamo. La sua nascita dall’agricoltura, ma con una propria individualità, pone però fin dall’inizio numerosi problemi di carattere economico. Sin dagli inizi si individuano tre modelli di rapporti che regolano le questioni fra i due comparti. Il primo è quello contrattuale in cui i principali aspetti della fornitura della materia prima agricola sono regolati da accordi scritti. Già a fine ‘800 erano in uso contratti nel lattiero-caseario e nel bieticolo-saccarifero che poi si sono diffusi in altri comparti. Non molto diversi da quelli attuali  non hanno risolto i problemi di conflittualità, anzi proprio in questi due comparti si registra la più elevata litigiosità fra le parti. Il secondo modello è quello cooperativo, in cui l’agricoltore è anche industriale in relazione al prodotto conferito. Ma anch’esso non è risolutivo. Nelle cooperative si scontrano le due anime, quella agricola che vuole il massimo prezzo per il prodotto conferito e quella industriale che pensa al consolidamento dell’impresa e ciò frena, insieme a problematiche  di altro genere, il successo della formula. Il terzo è quello dell’integrazione in cui uno dei soggetti della filiera si assume i rischi economici dell’intero processo. In carenza di una specifica forma giuridica ha assunto l’antica veste della soccida ed è molto diffuso in alcuni allevamenti, ma anch’esso solleva difficoltà.
Il punto chiave è quello del differente potere contrattuale delle parti, agricola e industriale, che si riflette sulla formazione del prezzo e quindi sulla distribuzione del valore aggiunto della trasformazione. La crescita delle dimensioni dell’industria negli anni ’80 e ’90 ha aumentato il divario, ma lo scenario sta cambiando. L’apertura di un canale diretto fra Grande Distribuzione e agricoltura, da un lato, e la razionalizzazione dell’industria che si concentra su alcune trasformazioni dismettendone altre, dall’altro,  schiudono nuovi scenari. Alcuni comparti dell’alimentare tornano nelle  mani del mondo agricolo mentre i contatti diretti con la GD aprono una prospettiva di riduzione dei passaggi e di diversa attribuzione del valore aggiunto. Non è un idealizzato ritorno all’agricoltura, ma una necessità economica per tutte le parti in un contesto sempre più competitivo. Ecco perché, probabilmente, sentiremo parlare sempre meno delle ipotetiche virtù della filiera come luogo di pacificazione e di maggiore convenienza economica, anche perché è invece la sede in cui si esprime un’accanita competizione verticale, e sempre più di percorsi economici brevi e quindi vantaggiosi per tutti, anche per i consumatori. 
In conclusione, non è importante che sia l’agricoltura o l’industria o la mano della distribuzione a determinare chi trasforma gli alimenti, ma conta che ciò avvenga nel modo più efficiente possibile, ai prezzi più convenienti, con i compensi più equilibrati fra le parti. Solo chi realizza questa combinazione ha le migliori possibilità di continuare a farlo nel tempo con vantaggio per tutti, compreso lo stato, a condizione che  intervenga il meno possibile nei rapporti economici.