Diversità microbica e complessità dei vini naturali

di Giancarlo Moschetti
  • 20 February 2019
Oggi il consumatore è giustamente più attento alla propria alimentazione, più consapevole del proprio diritto a alimenti sani e sicuri e a informazioni corrette e trasparenti. È disposto a spendere di più a patto di poter contare su qualità e sicurezza. Ma soprattutto è disorientato, confuso e in crisi di fiducia verso l’intero sistema agro-alimentare: secondo un recente sondaggio di People-Swg, il 60% degli italiani ritiene che “nessuno garantisce per gli alimenti che arrivano a tavola”.
Non si discosta da tale analisi il settore del vino, l’unico alimento in cui non vengono citati gli ingredienti di produzione, come se davvero nel vino ci fossero solo uva e solfiti. Nel vino sono ammessi nel processo produttivo fino a 75 coadiuvanti enologici, ma alcuni di questi in realtà sono dei veri additivi e quindi andrebbero citati in etichetta, come la gomma arabica che si aggiunge in pre-imbottigliamento e quindi in pratica “bevuta” dal consumatore.  Questa mancanza di una corretta informazione ha fatto nascere da una decina di anni il movimento del “vino naturale” parola provocatoria che si contrappone al “vino convenzionale” cioè il vino prodotto con l’utilizzo dei lieviti selezionati, di coadiuvanti enologici e proveniente da uve coltivate non in biologico. Chi produce vini naturali non utilizza ne lieviti ne batteri selezionati e non aggiunge durante il processo produttivo nessun coadiuvante enologico: è ammesso solo il metabisolfito di potassio in minime dosi. Sebbene i vini naturali rappresentano in termini di fatturato una minima fetta del mercato enologico, all’attualità in Italia ci sono più di 400 aziende che imbottigliano e commercializzano vini naturali. Un vino naturale è fondamentalmente un vino a fermentazione spontanea, cioè fermentato da lieviti indigeni presenti nell’habitat vitivinicolo. La fermentazione spontanea prevede la colonizzazione dell’habitat “mosto” da parte di una varietà di lieviti vinari chiamati “non Saccharomyces”. Con l’aumento della concentrazione alcolica nel mosto in fermentazione, le condizioni ambientali diventano progressivamente più restrittive per lo sviluppo dei lieviti non-Saccharomyces, consentendo, in tal modo, ai lieviti della specie Saccharomyces cerevisiae, generalmente dotati di un maggiore potere alcoligeno, di prendere il sopravvento e di portare a termine il processo fermentativo.   
Tale processo è stato utilizzato in Italia fino al 1977, anno in cui con DM si autorizzò l’uso di lieviti selezionati come starter nell’industria enologica. In pratica, tutti i grandi vini prodotti ante 1980, erano a fermentazione spontanea. I detrattori dei vini naturali, a parte la critica sul nome provocatorio, sottolineano che la fermentazione spontanea è un processo non facilmente controllabile, che può essere responsabile della formazione di off-odour e off-flavour, ovvero di note aromatiche non desiderate generando anche alterazioni, quindi difetti organolettici nel prodotto finito.
Pertanto, il nostro gruppo di ricerca del Dipartimento SAAF dell’Università degli Studi di Palermo da diversi anni studia le dinamiche di popolazioni microbiche delle fermentazioni spontanee di vini naturali commerciali al fine di mettere a punto linee guida e protocolli di fermentazione per rendere tali vini sicuri, privi di difetti olfattivi e qualitativamente superiori ai vini convenzionali.