Globale contro Locale

di Dario Casati
  • 26 February 2020

Dopo gli anni ruggenti della globalizzazione sembrava che la tipica alternanza di fasi di grandi aperture agli scambi commerciali e di altre, all’opposto, caratterizzate da improvvisi ritorni al protezionismo ed a spinte autarchiche si fosse ripresentata improvvisamente. In realtà non è esattamente così, anche se le grandi sfide sui dazi che coinvolgono economia e politica ne sembrano la prova.
Chi è contrario al libero scambio, oltre a resuscitare i dazi, propone una serie di alternative che dovrebbero sconfiggerne gli eccessi introducendo forme di scambio basate su volumi più contenuti e modalità più etiche. Una di esse, dotata di un indiscutibile richiamo, è il localismo e cioè la riconduzione degli scambi ad aree e a dimensioni degli affari più ridotti e legati a specifici ambiti territoriali. I prodotti tipici di specifici territori con le denominazioni di origine protette si muovono in questo senso.
Ma, come spesso accade, non sempre ciò è vero perché la realtà, specie in economia, è molto più complessa di quanto si creda. Prendiamo il caso dell’aperitivo analcolico in bottiglietta, leader di mercato, il Crodino, riportato alla cronaca in questi giorni.
Lo produce il gruppo leader delle bevande alcoliche in Italia e al sesto posto al mondo: Campari, con un fatturato nel 2018 di 1.711 milioni. Fondato nel 1860 è una delle non numerose multinazionali italiane, anche se la sede è in Lussemburgo per ragioni comprensibili. Nella sua crescita avvenuta sia per via interna, con incrementi di produzione e di fatturato, sia attraverso acquisizioni e fusioni, la Campari ha agito in tutti i comparti delle bevande sia alcoliche, con superalcolici, aperitivi, vini sia analcoliche, incluse le acque minerali. Una serie di operazioni di recente ne ha delineato meglio la configurazione. Ha acquistato prestigiosi marchi internazionali e nello stesso tempo ha ridotto sia i vini sia le bevande analcoliche, concentrandosi su aperitivi e superalcolici di alta qualità. Fra l’altro ha ceduto nel 2017 alla danese Royal Unibrew, produttrice della birra Ceres, analcolici e acque che nel frattempo aveva acquisito dall’olandese Bols: Crodo Lisiel, Lemonsoda, Oransoda, etc. ottenute sia dalle acque di Crodo sia della Levissima. L’accordo esclude un solo prodotto, appunto il Crodino.
Creato nel 1964 è prodotto sin dall’inizio nell’insediamento di Crodo, nell’Ossola, in Valle Antigorio, nonostante diversi tentativi di delocalizzazione poi rientrati. La sua composizione, come per altri prodotti famosissimi ad esempio la Coca Cola, non è coperta da brevetto, ma è una ricetta segreta. Una strategia in apparenza meno protettiva, ma che presenta vantaggi in particolari condizioni. Nell’accordo era previsto che per tre anni rimanesse a Crodo, dove si concentravano le altre bibite, in particolare Oransoda e Lemonsoda. Al termine Campari avrebbe trasferito la lavorazione nel grande stabilimento di Novi Ligure.  In vista del termine alla fine del 2020 dal territorio sorgono proteste proprio sulla localizzazione. La questione dei posti di lavoro, si parla di 80 unità, di cui 20 dedicate esclusivamente al Crodino, è risolvibile perché la linea Oransoda/Lemonsoda è in grado di assorbirle. Il punto è il legame del marchio e del prodotto con la località di Crodo.  Un prodotto globale ed esportato, ma un nome che richiama il luogo in cui si attinge l’acqua. La strada scelta non è la denominazione d’origine, ma un marchio industriale evocativo della provenienza. L’esito della vicenda, sia pure con qualche rimpianto, è scontato.
Ma il caso non è unico. Lo scorso autunno l’acqua Lurisia è stata ceduta dal gruppo Acque Minerali (al 4° posto in Italia) a Coca-Cola HBC. Lurisia è acqua ufficiale di Slow Food e di Eataly e produce anche bibite. Una è un Chinotto che si dichiara in etichetta “il vero” e “presidio del chinotto di Savona” di Slow Food. Quest’ultima, appresa la notizia, ha dichiarato che intende concludere la collaborazione con Lurisia. Peraltro la bevanda, prodotta con chinotti “della riviera ligure”, dunque non solo savonesi, era imbottigliata in uno stabilimento del gruppo Acque Minerali a Boffalora Ticino (MI) a circa 230 km. Il richiamo al territorio in apparenza è forte, ma non difendibile e sembra prevalere la scelta del marchio acquistato da Coca Cola.
Tutto ciò non riguarda solo le acque minerali. Esiste anche in altri settori per i richiami geografici. Basti pensare al liquore Amaretto di Saronno, divenuto “DISARONNO” per poter difendere il marchio o al Calzaturificio di Varese, oggi “DIVARESE” per lo stesso motivo. Entrambe le imprese sono forti esportatrici e dunque preferiscono marchi evocativi della provenienza alla denominazione d’origine. Lo stesso è accaduto per l’Emmental svizzero.
La partita fra immagine globale e locale in questi esempi vede vincente la prima, un esito su cui è bene riflettere per le future strategie dell’alimentare.